Recensione: No Sign of Life

Di Daniele D'Adamo - 12 Novembre 2021 - 0:00
No Sign of Life
Band: Unleashed
Etichetta: Napalm Records
Genere: Death 
Anno: 2021
Nazione:
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70

Tornano i vichinghi, tornano gli Asi, tornano i maestri del death metal Unleashed con il loro nuovo nonché quattordicesimo album in carriera, “No Sign of Life”.

Della formazione originale, nata nel 1989, sono rimasti Johnny Hedlund (voce e basso) e Anders Schultz (batteria). Anche se occorre sottolineare che Tomas Olsson, il primo chitarrista, è entrato nel 1990 mentre Fredrik Folkare, il secondo axeman, è entrato nel 1995. Il che significa una buona continuità della line-up che, nel corso degli anni, ha fatto della stabilità una delle sue basi filosofiche più rilevanti.

Sembra un fatto secondario ma, al contrario, ciò è uno dei capisaldi che consente ai Nostri di sciorinare la loro musica (quasi) così com’è nata, alla fine dei leggendari – per il metal ma non solo – anni ottanta. Ovviamente, con una ripulita per adattarla alle moderne sonorità che contraddistinguono questi ultimi anni, basate sostanzialmente su un netto miglioramento del processo produttivo di un LP grazie al massiccio ingresso dell’elettronica.

Così, nel 2021, gli Unleashed possono suonare da… Unleashed senza puzzare di vecchio. Cioè, sì da mantenere intatto il loro stile così come quello degli esordi, reso vivo da una produzione impeccabile come quella che si può avere grazie un’etichetta discografica importante come la Napalm Records. E, restando in argomento, si sottolinea che non si tratta di old school. Assolutamente. Guai a confondere il sound di “No Sign of Life” con quello proposto dalla miriade di act dediti al sottogenere appena menzionato. No. Il combo svedese esegue il proprio lavoro nella maniera più naturale possibile, senza cioè forzare alcuno dei dettami stilistici che li ha resi grandi.

Un pregio e un difetto assieme. Un pregio, poiché le generazioni attuali possono toccare con mano chi ha contribuito in maniera decisiva alla nascita e successivo sviluppo del death metal. Un difetto, giacché da un disco come questo non si possono aspettare grandi novità rispetto a quanto già ascoltato in precedenza. Del resto non è qui che si devono cercare spunti evoluzionistici oppure progressioni formali e sostanziali. Hedlund e la sua truppa, fieramente, proseguono senza tentennamenti sulla loro strada, scavata tanto tempo fa: quella dello swedish death metal. Fattispecie tipologica contraddistinta da un mood ben preciso, da sfumature tali da renderlo quasi una foggia musicale a sé stante (‘Midgard Warriors for Life’). Non derivativa dal genere padre, per dirla maglio.

A parte le tematiche dei testi, specificamente centrate sulla mitologia nordica, ciò che rende unica la foggia artistica del combo scandinavo è un approccio alla questione basata su un suono potente e compatto, molto pulito e preciso, che fa della coesione dei membri il suo lievito fecondante. Fattispecie che appartiene al combo medesimo, come più su evidenziato. Suono lontano dall’essere estremo, tant’è che, a parte alcuni rari episodi (‘The King Lost His Crown’, ‘No Sign of Life’), è quasi vietato l’utilizzo dell’esagerazione dei blast-beats per uniformarsi a ritmi al più centrati sugli up-tempo, se non addirittura a mid e slow-tempo (‘Where Can You Flee?’). Non manca la melodia, che, come da tradizione, appare qua e là. Un elemento assai importante, in quanto ha consentito, a quei tempi, lo sviluppo del gothenburg metal. Gli Unleashed, per questo specifico aspetto, non esagerano. E questo perché in essi sopravvive l’eredità del thrash metal. Un flavour a volte percepibile soprattutto nelle linee vocali. Hedlund, difatti, non conosce né growling né altri modi di cantare che non siano quelli legati a un tono stentoreo, generato a pieni polmoni, dai contorni rochi, scabri ma tuttavia perfettamente intelligibili.

Più che discreto l’insieme delle canzoni. In esse il songwriting appare piuttosto scolastico ma, di nuovo si tratta di un qualcosa che consente agli Unleashed di mantenere intatta la propria identità. D’altro canto, inutile aspettarsi novità o sorprese, dopo tanti lustri; anche perché la band ha deciso di perseguire con la massima attenzione la tutela del suo essere, della sua anima, del suo cuore.

Gli Unleashed del terzo millennio sono così: nessuna sfumatura. O sì o no. Per questo, “No Sign of Life” è da prendere o da lasciare. Senza vie di mezzo.

Daniele “dani66” D’Adamo

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