Recensione: Noir Kid
Joylessness
[Assenza di Gioia]
Ciclicamente, il Cosmo echeggia della musica proveniente dai meravigliosi componimenti di Emin Guliyev, azero di Baku, dedito a una magnifica interpretazione del post-black. Cioè, della mirabile unione fra il black metal, appunto, e la shoegaze, unitamente a intarsi di electronic.
Una miscela che, sapientemente, Guliyev crea dagli ingredienti suddetti, e che nasconde al suo interno una magia. Un prodigio che, come un nastro luminescente svolge le sue spire attraverso le stelle, attiva negli strati più profondi dell’anima sentimenti perduti, o anche dimenticati, o anche silenti, in attesa di qualcosa o qualcuno che li risvegli.
E questo accade subito, immediatamente, con l’opener-track che svolge, anche, la funzione di title-track: ‘Noir Kid’. Non appena l’intensità sonora della canzone sale via via sempre più in alto, a lambire gli strati più esterni e rarefatti dell’atmosfera terreste, contemporaneamente attiva parti di cervello poco usate, soprattutto in un Mondo, come quello attuale, in corsa verso la completa, fredda, glaciale anaffettività e, quindi, dritta a uccidere il Cuore. Allora, mentre il brano dipana le sue strofe, scandite dall’urlo disperato di Guliyev a significare la sua impotenza di fronte all’ineluttabile disgregazione dei sogni, si ode il dolce tono di una voce femminile, quasi a voler significare che, sì, davvero, qualcuno in grado di portare avanti l’eredità di una musica grandissima c’è.
A parte questi piccoli frammenti eterogenei, Guliyev fa tutto da sé, quasi a significare l’intimità di una creazione che sgorga dalle sorgenti dell’Io, e che, pertanto, debba dissetare pochi fortunati percettori di un’astrazione invisibile che travolga anch’essi, facendo chinare loro la testa per indicare l’avvenuta presa di coscienza dell’essere. Una coscienza che spaventa, fa tremare le vene, inducendo gli occhi a bagnarsi sino a lacrimare. La Vita, difatti, nell’interpretazione testuale della blackgaze (post-black e shoegaze) regala solo dolore e sofferenza, e quindi la cognizione di esistere innesca emozioni tristi, malinconiche, allineate a un lasso di tempo corrispondente a quello della vita umana, durante il quale sono banditi rigurgiti emozionali, fallaci come la felicità, ma anche le più minute e misere gocce di luce. Il che, messo tutto assieme, decreta la vittoria dell’assenza di gioia. Vittoria tangibile più e più volte, fra le pieghe più oscure delle tracce del disco.
Ma, allora, perché continuare a patire? Perché non mettere fine al tutto? Lo canta Guliyev. Seppure ammantate di profondissimi singulti di schizzi depressivi, l’esistenza umana può avere un senso anche nella sua più terribile sofferenza. Il solo osservare la volta stellata, con le galassie multicolori che si allontanano l’una dall’altra, è significativo di un mistero la cui impossibile soluzione riempie le molecole dell’istinto di conservazione della specie. Un istinto, che paradossalmente, si nutre delle dolenti note di “Noir Kid”, il cui approfondito ascolto fornisce gli strumenti per trovare la pace, per penetrare in se stessi a cercare l’Infinito e, incredibilmente, a trovarlo. Allora, si placano le turbolenze di quel languore che stringe il cuore, si aprono visioni mirabolanti di Mondi lontani, ove, quasi per miracolo, si può immaginare di volare in eterno; lasciando definitivamente la Terra per vivere, finalmente, definitivamente, accanto a joylessness, diventata nel frattempo un’entità senziente.
Scivolando fra gli accordi di ‘Goodnight Sun’, allora, si può trovare l’orlo di un cunicolo spazio-temporale per proiettare anima e corpo in un altro quadrante, ignoto, dell’Universo e, lì, restare sino alla fine dei giorni, in sincronia con le vibrazioni dell’Oscurità (‘Synced to Darkness’).
Capolavoro.
Daniele “dani66” D’Adamo