Recensione: Norrøn
Sarà capitato a tutti almeno una volta nella vita quel momento imbarazzante in cui suona il campanello e dietro alla porta si trova qualche ospite inatteso, magari con un regalo come segno di riconciliazione dopo una sparizione lunga e colpevole. In genere si uccide la vacca grassa, ma con gli Einherjer è d’uopo un ingresso in punta di piedi, per non risvegliare d’un colpo quella sensazione di amaro lasciata dagli ultimi due insipidi lavori pre-dipartita. Per scalzare l’amarezza non bastano due parole: i nuovi vogliono sapere di che pasta sono fatti e i vecchi attendono a braccia conserte un riscatto in realtà desiderato ardentemente nel corso degli ultimi dieci anni. Insomma, per dirla nella loro lingua natia, “Det er ikke bare bare, men men.”
E guarda caso questo riconciliatorio Norrøn è intrigante come pochi album da qualche tempo a questa parte. Potere dell’estro che intride la Norvegia e il cui sommeso tumulto è in grado di donare ispirazione anche solo per osmosi a tutte quelle band che ne respirano gli effluvi.
L’ispirazione ora è quanto mai necessaria: gli Einherjer del 2011 si trovano a combattere contro lo spettro di un scioglimento probabilmente innescato da un paio d’album non propriamente eccelsi che nel 2004 hanno tristemente apposto il sigillo a una band che a ragion veduta è lecito considerare tra le antesignane del Viking Metal. Il cambio radicale di sound di Norwegian Native Art non è servito ad assicurargli un posto al sole, per cui l’impulso naturale di un album post-riunione sarebbe potuto essere quello di un ennesimo cambio radicale, magari proprio un ritorno alle origini. Intanto, il logo scelto non dirà nulla ai più, ma le vecchie volpi del genere avranno senza dubbio colto tra le rozze e arzigogolate maiuscole un silenzioso mea culpa che suona più o meno come un “d’accordo, il logo da volantino di tipografia fotoscioppato faceva cagare. Torniamo ai pastelli e usiamoli anche per la copertina”.
Questo per me è già un buon segno, anche se è il contenuto a dover fare la differenza.
Ammetto di essere rimasto un po’ scosso dal primo ascolto. Non si capisce bene dove voglia andare a parare l’album, una specie di minestrone di tanti generi che alterna passaggi francamente traballanti ad altri da brividi, brividi buoni, come quelli che percorrono i 13 minuti della title track.
A fare l'”epica” ci provarono di già, proprio ai tempi di Blot, ma la confusione purtroppo regnava sovrana e i risultari furono tutt’altro che accettabili. In otto anni di silenzio probabilmente siamo cresciuti un po’ tutti e tra la innegabile maturità musicale acquisita si nota una certa voglia ultima di creare stupore. Ed è incredibile notare come abbiano deciso di non buttare nulla alle ortiche, tanto che ancora si riesce a riconoscere il tipico sound Einherjer anche nell’album che avrebbe dovuto rappresentare il taglio netto con il passato e il nuovo inizio. Non è il sound allegro di Odin Owns Ye All e nemmeno quello tetro e plastico di Norwegian Native Art. La svolta concettuale è avvenuta in favore di un Einherjer sotto acidi, leggermente malato, tanto che in più di un passaggio mi sono tornati in mente album come Yersinia Pestis degli Helheim o Eld degli Enslaved, due album che, incidentalmente, non ho mai digerito.
Si potrebbe parlare di nuova partenza in salita per gli Einherjer ma stavolta non è davvero tutto nero. C’è molto da salvare in Norrøn, prima di tutto proprio l’ecletticità. Interessante, avanguardistica, a tratti quasi progressiva l’epica d’apertura: si nota che racconta una storia, e di storie ce n’è da raccontare nella sterminata mitologia nordica alla quale attingono per quest’ultimo album. Seriamente interessanti alcuni passaggi rock ‘n roll alternati a piccoli intermezzi folk interrotti, di tanto in tanto, da qualche rumore di grande effetto teatrale.
Purtroppo, o per fortuna, dietro al microfono ritroviamo ancora la voce abrasiva e stridula di Frode Glesnes che ha il potere di risultare allo stesso tempo inascoltabile per gli astemi del genere e prodigiosa per chi, invece, da tempo ha imparato a digerire band iper-blasonate dal cantato che farebbe inorridire qualunque salotto buono della musica (Quorthon, Ville Sorvali…). È nuovamente la sindrome del principe-ranocchio, i cui orribili rigurgiti disarticolati evocano invece scenari fulgidi e luminosi, ampi come campi di battaglia, festosi come la ruffiana “Alu Alu Laikar” e sinistri, claustrofobici e tetri come in “Naglfar“. Non manca un immane omaggio ai grandi capolavori del viking corale di Bathory nella sapientemente modellata “Balladen om Bifrost” e nella leggermente infantile “Varden Brenne“, quasi uno schizofrenico refuso di Blood on Ice sotto una pioggia di LSD.
Tornando alla carica, gli Einherjer avrebbero potuto fare di tutto: ridicolizzare sé stessi, ridicolizzare il genere che li ha resi famosi o ridicolizzare la sensibilità del pubblico con un album scontato e preparato a tavolino. Invece Norrøn è un album difficile, partorito con dolore, forse non pienamente riuscito perché leggermente piagato dagli spettri del passato… ma che apre tante porte, finestre e cunicoli. Un paio di ascolti, in silenzio e concentrazione, sono necessari: dopotutto si deve sempre rispetto a chi ha lavorato per preparare un’eredità raccolta da tante band nate e cresciute dopo il 1995. Da prendere come punto di ripartenza di un genere che in questi ultimi due anni sta vedendo un innegabile e fisiologico tramonto… il terzo della sua storia.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
01. Norrøn Kraft
02. Naglfar
03. Alu Alu Laukar
04. Varden Brenne
05. Atter På Malmtings Blodige Voll
06. Balladen Om Bifrost