Recensione: Not As Good As The Book
“The music that refused to die”: così una nota rivista inglese ha titolato un recente speciale sulla storia del progressive. Bisogna ammettere che mai espressione avrebbe potuto essere più azzeccata. Negli anni ‘70, mentre gruppi dotati di estro e inventiva fuori dal comune si impegnavano a valicare le barriere creative imposte da ciò che allora era considerato “mainstream”, molti dei lettori di oggi ancora non erano nati, altri erano troppo giovani per seguirne le vicende, pochi soltanto furono testimoni consapevoli della genesi di quella strana corrente artistica, eccentrica e anticonformista, destinata a lasciare un segno indelebile nella storia della musica. Ciò che allora era considerato nuovo, sorprendente, sperimentale, oggi è storia. Da quei giorni ne è passata di acqua sotto i ponti – ne sono passate di note alle radio. Così qualcuno potrebbe porsi il dubbio: è ancora possibile riportare quello stile ai medesimi livelli di eccellenza che conobbe nei suoi primi anni di vita? È ancora possibile un nuovo apogeo del progressive rock, o il presente è destinato a restare copia – forse sbiadita, forse accurata, ma pur sempre copia – di modelli oramai lontani, distaccati, inarrivabili?
Sono sempre le solite domande, che regolarmente si ripresentano ogni qualvolta ci si trova davanti a opere che sembrano appartenere a un’altra epoca. “Not As Good As The Book” – chi l’avrebbe mai detto – parrebbe proprio una di queste opere. Tutto ciò che negli anni ’70 costituiva la natura intima del progressive rock, quell’incessante rincorrersi di scherzo e poesia, di grave e faceto – tutto questo è ancora presente su “Not As Good As The Book”. Strano, perché nel 2008 qualcuno potrebbe anche pensare che a forza di ricever mazzuolate ora dal punk, ora dal grunge, ora del pop più becero e dozzinale, il caro, vecchio prog avrebbe anche potuto rassegnarsi e, dignitosamente, capitolare.
E invece eccola qui, l’anima del progressive, che caparbia resiste, nonostante tutto e nonostante tutti. Si attacca coi denti alla storia e non ne vuol sapere di farsi da parte. Di tutte le sue incarnazioni, i The Tangent sembrano essere una delle sue preferite. Non è da ieri che Andy Tillison ha confessato la propria passione per la musica che era, non è da ieri che ha dimostrato di saperla rinverdire ancora oggi. “A Place In The Queue” era un capolavoro, nulla di meno, il frutto rigoglioso di un terreno smosso e fecondato dai due album precedenti. Ripetersi era difficile, eppure Andy non si è fatto sconti. Lasciatosi alle spalle un periodo tumultuoso della propria vita, ha stillato il proprio estro, la propria determinazione e il proprio amore smisurato per la bella musica in un nuovo, piccolo gioiello.
Piccolo – si fa per dire. Se il motto di “A Place In The Queue” era “a double album in a single CD”, “Not As Good As The Book” è un double album, punto. Anzi, no: è di più. L’incontro con l’illustratore esordiente Antoine Ettori ha infatti dato a una collaborazione fruttuosa, dalla quale ha preso forma una vera e propria novella grafica, in bilico fra commento visivo e parodia concettuale. Peccato che i soli a poterla sfogliare saranno i fortunati possessori dell’edizione speciale, acquisto a questo punto pressoché obbligato per ogni fan della band che si rispetti. Per tutti, in ogni caso, resta comunque la musica. E che musica.
La suddivisione dei due CD non avrebbe potuto essere più radicale. Sette tracce sul primo, quelle più brevi e immediate – brevi per modo di dire, visto che il minutaggio non si pone troppi problemi a infrangere la barriera dei sette primi e a toccare quella dei dieci. Totale: cinquanta minuti di progressive di quello buono, anzi ottimo. Dall’allegro rimpiattino di folk e jazz su “Lost In London 25 Years Later” agli scoppiettanti pattern di basso della title track, passando per il solare crescendo di “The Ethernet”, la scaletta esibisce un cameo di stili e colori che esalta le qualità – non solo tecniche – dei musicisti all’opera. Discorso a parte per le linee vocali. Com’è noto, il polistrumentista Tillison non può certo ritenersi un virtuoso dell’ugola, tanto che già sull’opener “A Crisis In Midlife” il buon Andy si presenta con un paio di stecche niente male. Poco male: anche l’imperfezione fa parte del gioco; peraltro, sfido chiunque a non lasciarsi conquistare dall’irresistibile vitalità del refrain e dalle inattese pennellate elettroniche che lo incorniciano. Al di là della durata dei singoli componimenti, il primo disco scivola via in tutta spensieratezza, agile, scorrevole, mai prolisso o dispersivo. Il maggiore piacere per chi ascolta sta forse nel ritrovare sparsi qua e là continui riferimenti a Yes e Caravan, Gentle Giant e Jethro Tull, Genesis e Van Der Graaf Generator o persino Uriah Heep e Atomic Rooster, sempre rielaborati in un sound attuale, fresco, nuovo.
Decisamente più impegnativa la seconda metà dell’album, complessivamente più breve (meno di quarantacinque minuti in tutto) ma suddivisa in sole due tracce. Non è del resto un mistero la propensione di Andy per i lunghi componimenti, una costante in ogni capitolo dei The Tangent. La prima delle due suite, “Four Egos One War”, è fra le due quella di più agevole assimilazione. Dominata dal consueto spirito di ironia e paradosso che attraversa i temi lirici e musicali dell’album tutto, la composizione si articola fra garbati passaggi acustici, sovrapposizioni di linee vocali maschili e femminili, ammalianti interventi dei fiati di uno straordinario Theo Travis e improvvise sgroppate ritmiche, protese insieme verso un luminoso coro tutto da cantare. Decisamente più ostica la conclusiva “The Full Gamut”, vuoi per la schiacciante sproporzione tra parti cantate e sezioni strumentali (sempre più preponderanti), vuoi per le intricate improvvisazioni ritmico/melodiche in pieno stile Emerson Lake & Palmer. Si tratta tuttavia di uno dei brani a lungo termine più avvincenti, di quelli che rendono l’ascolto sempre nuovo e gratificante anche a mesi e mesi (magari anni?) di distanza. Perché potete star sicuri che non vi sbarazzerete dei The Tangent con una manciata di ascolti.
Se questo disco fosse uscito negli anni ’70, insomma, oggi sarebbe considerato un classico. Qualcuno potrebbe dire che è più facile comporre un’opera di tale foggia oggidì, quando molto se non tutto è già stato detto, di quanto non lo fosse trenta o quaranta anni fa, mentre ancora si stava scrivendo la storia. Bella fatica scrivere “A Place In The Queue” o “Not As Good As The Book” ora che altri hanno già pensato a riempire le biblioteche di “Red”, “Tarkus”, “Fragile” e “Foxtrot”. Ma siamo davvero sicuri che recuperare quell’avveniristico romanticismo, quel nostalgico sperimentare, quello sregolato, sistematico flusso di coscienza in musica, ormai da tempo dimenticato dalle masse e fuori moda per i critici – siamo sicuri che accogliere nella propria carne l’anima migratrice del genuino progressive degli anni ’70 sia davvero così semplice, comodo, conveniente?
A voi la sentenza. A voi i The Tangent.
Riccardo Angelini
Line-up:
Andy Tillison Diskdrive: keyboards, guitars, vocals
Guy Manning: acoustic instruments, vocals
Jonas Reingold: bass guitar
Jaime Salazar: drums
Jakko M Jakszyk: electric guitar, vocals
Theo Travis: saxophone, flute
Tracklist:
Disc 1:
1. A Crises In Mid-Life (7:13)
2. Lost In London 25 Years Later (7:33)
3. The Ethernet (10:13)
4. Celebrity Purée (3:43)
5. Not As Good As The Book (8:54)
6. A Sale Of Two Souls (7:16)
7. Bat Out Of Basildon (5:54)
Disc 2:
1. Four Egos, One War (21:15)
2. The Full Gamut (22:43)