Recensione: Nothing But The Whole
Sono ormai quasi tre i lustri di attività dei belgi Emptiness che, incuranti di ogni classificazione del metal estremo, hanno dato alle stampe una discreta discografia riguardante opere difficilmente inquadrabili entro limiti stilistici ben definiti. Tre demo (“Eternal Rising”, 2000; “Necrorgy”, 2002; “Demo 2005”, 2005) e quattro full-length (“Guilty To Exist”, 2004; “Oblivion”, 2007; “Error”, 2012; “Nothing But The Whole”, 2014) rappresentano un biglietto da visita di tutto rispetto, per chi rifugge definizioni e catalogazioni e, quindi, pure, velleità extra-underground.
Anche il neonato “Nothing But The Whole”, naturalmente, non sfugge a questa regola, e con ciò si candida a pieno diritto quale ‘album più strano’ del 2014. Certo, gli argomenti trattati dal quartetto di Bruxelles non sono il massimo dell’originalità: di vuoto, tenebre e orrori hanno scritto più o meno tutti, in ambito death. Sì, death. Anche se la musica elaborata da Phorgath e i suoi accoliti richiama moltissimo il doom e pure – un po’ meno – il black, alcuni aspetti della medesima possono accumunarla alla grande famiglia del death metal, appunto. L’odore, innanzitutto. Cioè, quell’indefinibile aurea che attiva il senso olfattivo collegato con l’anima, e che lascia all’intuito e all’istinto la percezione di quale sia il sentore emanato dalle tracce di un platter. C’è anche la voce dello stesso Phorgath, inoltre, a fungere da catalizzatore in virtù di un morboso, putrescente, roco growling. Infine, qualche accelerazione volutamente rozza, primordiale e belluina, come quella di “Tale Of A Burning Man”, segna in profondità un sound incredibilmente marcio, corrotto, letargico, oscuro.
Un sound che, ed è qui che probabilmente è nascosta la chiave di lettura di “Nothing But The Whole”, richiama più di una volta due band proto-death i cui nomi, ancora oggi, sono riportati in grassetto nelle enciclopedie metalliche a confermare un’importanza storica di tutto rispetto. Gli svizzeri Hellhammer di Thomas Gabriel Fischer – alias Tom G. Warrior, alias Satanic Slaughter – , e gli statunitensi Exorcist, in cui operavano – sotto mentite spoglie – David DeFeis ed Edward Pursino dei Virgin Steele. Questi ultimi magari meno noti rispetto ai primi ma fondamentali per l’immersione, nelle cupe acque di Ossian, di quello che, allora (1986), era lo speed metal, fratello minore del thrash. E, nel caso in ispecie, unico metro di paragone, perlomeno come idea, della costruzione musicale degli Emptiness.
I quali, capaci come pochi a tramutare in note il buio degli orridi abissi che orlano i tortuosi percorsi della mente, fanno di “Nothing But The Whole” un esempio pressoché perfetto della trasformazione delle emozioni in musica e di quest’ultima in visioni. Intrappolando il tutto in un universo di buchi neri, irresistibili trappole per fotoni, mortali orifizi fra i quali viaggiare a cavallo di onde lente ed oscure. Perturbazioni che prendono il nome di “Go And Hope”, “Nothing But The Whole”, “Behind The Curtain”, sino ad arrivare a “Lowland” per chiudere un cerchio che non dura nemmeno quaranta minuti ma che sembra rallentare il tempo talmente è ficcante e profonda la loro penetrazione nel vuoto.
Un sound da apprezzare anzi gustare in una stanza refrattaria alla luce per poter intraprendere un viaggio memorabile nell’assenza di materia. Qualche pecca tuttavia c’è, e riguarda le song, a volte spiccatamente prolisse (“All Is Known”) e tendenti ad abbandonare con facilità il proprio motivo portante. Uno sfilacciamento artistico che cozza con l’efficacia di uno stile sostanzialmente unico, rendendo meno interessante un CD che, al contrario, sarebbe potuto essere se non un capolavoro di dark (death) metal, quasi. I pregi di “Nothing But The Whole” restano in ogni caso numerosi, facendo sì che gli Emptiness non finiscano nel dimenticatoio. Almeno si spera.
Daniele “dani66” D’Adamo
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