Recensione: Nothing Remains the Same

Di Il-Guardiano-del-Far - 9 Dicembre 2002 - 0:00
Nothing Remains the Same
Band: Pain
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2002
Nazione:
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90

Eccoli qui, I Paradise Lost del 2000. Persi definitivamente gli originali (a modestissimo parere di chi scrive), chi cerca dei degni sostituti è pregato di rivolgersi ai Pain. Questo ‘Nothing Remains the Same’ è un disco strepitoso, che si incastona in quel genere Gothic-Metal che proprio i Paradise Lost hanno contribuito a portare ai massimi livelli, per poi cercare di esplorare territori più legati all’elettronica, con il coraggiosissimo ‘One Second’.

I Pain si inseriscono a pieno titolo nel solco creato dalla band di Halifax, rappresentando a mio giudizio il miglior prodotto nel settore da qualche anno a questa parte. D’altronde Peter Tatgren, guru della scena estrema svedese, nonché braccio e mente dei Pain, ci ha da sempre abituato a prodotti di altissima qualità, spesso e volentieri fulmini a ciel sereno (chi ha detto Hypocrisy’!’).

Idem per i (non annunciati) Pain.

L’opener ‘It’s only them’ ci introduce nelle 11 tracce che compongono il disco, con quelle atmosfere che non avrebbero per nulla sfigurato in un Draconian Times’, ma quasi che nella line up si fosse nascosto subdolamente Rob Zombie con la sua voglia di mix, remix e sperimentazioni.

Le atmosfere ancora elettroniche di ‘Shut Your Mouth’ e ‘Close My Eyes’ dominano la scena, senza mai oscurare comunque i potenti riff chitarristici che rappresentano l’inconfondibile trademark di Tatgren.

Neanche il tempo di riprenderci, che veniamo carpiti dalle melodie dark e dall’urlo soffocato di ‘Just Hate Me’, altra song che avrebbe di certo impreziosito il repertorio migliore del Paradiso Perduto. Suggestiva e ipnotica, poi, si insinua ‘Injected Paradise’, anch’essa pervasa da sinuose melodie che si stagliano su un tappeto di effetti elettronici.

Menzione a sé per la poderosa versione di ‘Eleonor Rigby’, che ci fa saltare alla trasformazione di uno dei classici di sempre della musica pop, salvo poi lasciare il passo ad una più leggera e tranquilla ‘Expelled’. ‘Già finito il gioco” direte voi’ Niente affatto. Dopo un momento di relativa calma, ‘Pull me Under’ esplode in tutta la sua rabbia, la sua potenza, il suo dinamismo, rappresentando senza dubbio uno dei picchi più alti del disco, grazie soprattutto alla peculiarità delle linee vocali e di una sezione ritmica che la fa da padrone, creando un vero e proprio tappeto sonoro sul quale si dipana una song davvero trascinante!

Assolutamente non da meno ‘Save Me’ e ‘The Game’, che si muovono secondo le stesse coordinate, conducendo alla conclusiva ‘Fade Away’, bellissima e struggente ballad che rappresenta una profonda riflessione sulla natura del pessimismo umano.Obiettivamente, ritengo che qualsiasi commento o tentativo di convincervi della bontà di questo lavoro sarebbe limitativo e non renderebbe l’idea di cosa abbiamo per le mani.

Una cosa è certa: i Pain, pur non brillando per eccessiva originalità, tuttavia risultano assolutamente all’altezza di quanto detto e fatto dai grandi del genere, e in periodi (di crisi’) come questo, ben vengano bands come queste.

Grazie Pete

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