Recensione: Now It’s Time
E’ decisamente buono, il colpo d’occhio creato al primo sguardo dalla bella e significativa copertina di “Now It’s Time”, debutto sulla lunga distanza dei cremonesi Steel City. Il cronometro dallo stile retrò in primo piano e il tipico scenario urbano sullo sfondo fatto di pensiline, vagoni della metro e cartelli appesi al soffitto, il tutto unito al monicker scelto dal gruppo, creano un’ovvia e certamente ricercata sensazione di velocità e dinamismo che potrebbe lasciar immaginare di accingersi all’ascolto di un disco fondamentalmente a base di heavy/speed metal. Mai, tuttavia, lasciarsi ingannare dalle apparenze; infatti, una volta inserito il disco nel player e dopo aver letto con attenzione la tagline di presentazione, le prime impressioni vengono letteralmente spazzate via. Il sound dei cinque lombardi (Fabio riccio alla voce, Alessandro Cannatelli e Samuele Cremonesi alla chitarra, Andrea Brambilla al basso e Francesco Valente alla voce) è decisamente moderno e “contaminato” e in esso finisce per confluire buona parte di ciò che il Metal, in tutte le sue forme, ci ha dato in pasto negli ultimi venticinque anni.
Mentre si ascoltano le varie tracce capita, quindi, di rinvenire tastiere di estrazione class anni ’80 (come accade nell’intro), quanto riffoni arcigni a mezza via tra groove e nu metal, partiture vocali grezze e ruvide, debitrici tanto dell’hardcore quanto del rap metal, e una grande quantità di incursioni in territori di volta in volta assimilabili al thrash old school (“Mandragora”, il rifferama di “No One’s Guilty”), all’alternative metal (“Last Evolution”, “Under Your Face”, “Faster”) e al nu metal (“Black Heart Monster Tears”).
Il mix di generi è totale. La vera sfida, in casi come questi, è riuscire ad amalgamare il tutto senza perdersi per strada e va detto che gli Steel City, pur in presenza di qualche lieve (e tutto sommato perdonabile) incertezza, ci riescono piuttosto bene evidenziando delle buone qualità sia in fase di scrittura e arrangiamento sia dal punto di vista prettamente tecnico.
L’intero disco si mantiene su livelli più che dignitosi e se le ottime “Now It’s Time”, “Mandragora” e Under Your Face” si configurano certamente come le sue punte di diamante, anche brani come l’accorata semiballata “Where Is My Home” (dal vocalismo al vetriolo ma, nel contempo, efficace) o le conclusive “Faster” e “Black Heart, Monster Tears” si rivelano episodi in ogni caso degni di nota. Unico neo sugli oltre 45 minuti di musica proposta, la disordinata “I’ Don’t Belong”, penalizzata da una linea melodica allegrotta che poco c’azzecca e, a conti fatti, l’unico episodio (parzialmente) da rivedere. Se il buon giorno si vede dal mattino…
Stefano Burini
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