Recensione: Oath Bound
Le braci di Isengard divampano di nuovo, e migliaia di troll emergono dalle profondità della terra per salutare agitando i loro neri stendardi l’ennesima fatica di Silenius e Protector, che per la sesta volta trasformano l’Austria nella Terra di Mezzo.
I Summoning sono tornati, e non esistono 70 minuti di musica più rassicurante al mondo per chi, come loro, ha dedicato i propri sforzi artistici all’immaginazione e la penna dello scrittore più riverito del panorama fantasy: J.R.R. Tolkien. Definire la musica di questa band è un compito titanico, giacché non si può ascrivere a nessun genere, e i paragoni non vengono in aiuto.
Il black metal che ha aperto la loro carriera si è velocemente trasformato in un gracchiante black metal di impareggiabile impatto epico; chitarre e percussioni lasciano volentieri il passo a sintetizzatori sinfonici e drum-machine che hanno l’oneroso compito di trascinare, minuto dopo minuto, l’ascoltatore tra le verdi contee e le minacciose cordigliere dell’universo tolkeniano, per prendere parte alla marcia di una pattuglia di orchi o al minaccioso cavalcare dei Nazgul verso il regno degli Uomini.
L’immaginativo è il punto di forza dei Summoning: già in passato si sono avvicendati lavori molto ambiziosi che hanno scavato nei meandri della terra di mezzo, svelando i misteri di Minas Morgul e di Granburrone, e incantando decine di migliaia di ascoltatori in mezzo mondo.
Anche in questo caso, Oath Bound non tradisce le aspettative di nessun fan: durante il sofferente corso di oltre 69 minuti di musica trionfale, intere civiltà si sgretolano come montagne, e bastioni crollano sotto la marcia delle tenebre, trascinando l’audience un un emozionante viaggio cinematografico che si estingue solo molti minuti dopo la fine dell’ultima traccia, quando ancora nell’aria rimbomba il sontuoso coro di “Land of the Dead”, e la mente ripercorre il sentiero appena percorso con un misto di malinconia e sollecitazione intellettuale. Alla stregua di lavori come Let Mortal Heroes Sing Your Fame e Minas Morgul, l’apertura è destinata a una strumentale di riscaldamento – insolitamente folkeggiante e allegra per gli standard a cui siamo abituati – la quale risulta persino viziata da ingenue varianti come un’arpa pizzicata o un flauto da osteria, il tutto condito da un recitato in voce pulita che introduce alla trionfale “Across the Streaming Tide“, una sfida artistica della durata di oltre 10 minuti in cui Protector raffina un cantato della qualità di Let Mortal Heroes Sing Your Fame.
Nonostante la durata critica, l’usuale e incessante oceano di chitarre compie il suo lavoro in maniera egregia, trascinando l’ascoltatore in quel mondo scandito dalle solite, sparse percussioni di timpani e dalle tastiere spesso interrotte dal lontano risuonare di corni, che lasciano intravedere la grande novità di quest’album, “Mirdautas Vras“. Scritta e cantata interamente nell’oscura lingua degli orchi, questa canzone è uno dei picchi più emozionanti del disco: frequentemente infatti interrompe il proprio percorso lasciando udire la terribile marcia degli orchi, che urlano all’unisono al suono dei corni da battaglia.
Marziale fino all’estremo, Mirdautas Vras è un’esperienza come poche nel panorama metal, ed è probabilmente tra le canzoni più minacciose mai scritte dal combo austriaco, probabilmente grazie allo stridulo cantato in una lingua talmente peculiare da trasformarsi nel primo (e unico) testo mai stampato su un libretto dei Summoning.
Da qui l’album potrebbe segnare una battuta d’arresto, e invece è proprio in “Might & Glory” che la band tira fuori il meglio di sé, realizzando un sapiente miscuglio di tastiere eteree e misteriose, cori drammatici e articolati e fiati che sembrano provenire direttamente dalla tradizione musicale delle stirpi di Lothlorién. Ancora una volta, la canzone appena trascorsa si trasforma per volontà superiore in una preparazione alla successiva, “Beleriand“, che se possibile è ancora più imponente nella sua introspezione paesaggistica, ove pare quasi di sentire lo scorrere dei fiumi sulle note del flauto imperante e sul cinguettare un po’ imbarazzante di un paio di uccellini monovocalici.
Granitica nella sua ripetitività, “Northward” è forse la più confusionaria di tutte le canzoni presenti sull’album: i brevi ma violenti refrain sono gli unici responsabili della presa di coscienza di chi sta percorrendo questo viaggio musicale dall’inizio: l’incessante fluire delle grezze chitarre e la familiarità dei sample di corni, flauti e trombe generano un’ipnosi quasi pericolosa, durante la quale la mente compie viaggi allucinanti tra valli, boschi ed eserciti accampati formando la propria storia e le proprie esperienze quasi extracorporee.
Quasi quando il CD inizia a diventare terapeutico, “Menegroth” cambia le carte in tavola, iniziando a mostrare i carichi più importanti. Non che il riff principale sia di grande originalità, specialmente nel contesto dei Summoning, ma i piccoli accorgimenti che arricchiscono i quasi nove minuti di questa traccia rendono giustizia alla perizia con la quale, ancora una volta, è stata programmata l’intera sezione delle percussioni, qui più che mai in primo piano a scandire i diversi strumenti designati alla ripetizione dello stesso, ripetitivo e ossessionante riff.
Proprio mentre il viaggio sta per finire e la realtà inizia a bussare alla porta, “Land of the Dead” rapisce per l’ennesima volta l’immaginazione, distruggendo ogni futile tentativo di resistere al coinvolgimento emotivo di un album come Oath Bound.
Land of the Dead ha la colpa di sparare in sequenza tutte le cartucce più epiche del duo austriaco: Protector ritorna in possesso del microfono, e prepara una sequenza di 12 minuti in cui vibrano le corde più malinconiche e tragiche dell’intera produzione della band. L’inizio di pianoforte, le tastiere atmosferiche e le chitarre stridule e nervose occupano il campo per quasi sette minuti durante i quali gli orecchi più fini percepiranno, a intervalli regolari, dei brevi singulti corali: sono il prodromo dell’esplosione di uno dei cori più epici della loro produzione, che si snoderà senza soluzione di continuità fino al termine della canzone, ripetendo ossessivamente le stesse strofe finché l’alternanza delle due melodie portanti, tragicamente sottolineate da un flauto perso nella tempesta delle percussioni, non si spegnerà lasciando una scia di desolazione e di morte. Ci troviamo probabilmente di fronte alla canzone più imponente di tutta la loro produzione, seguita a poca distanza da quel “Farewell” conclusivo di Let Mortal Heroes che già aveva insinuato il presagio che qualcosa di grosso sarebbe accaduto nell’album successivo.
Non ci sono molte parole per descrivere il flusso di emozioni che genera ogni singolo album dei Summoning. I Summoning sono i Summoning, che piaccia o no.
Il disco è fatto per appagare senza mezzi termini solamente i loro numerosi fans. I detrattori di questo tipo di musica-non musica, di questo black traditore stravolto da un’enorme carica ambient/epica non cambieranno di certo idea con quest’album, anzi se possibile potrebbero inacidire ancora di più.
Ma considerando che come i Summoning non c’è praticamente nessun altro, e che bisognerebbe coniare un genere musicale solo per loro, direi di lasciarli scalare la loro montagna da soli. Non rubano spazio a nessuno, e di certo non incentiveranno nessuno a percorrere il loro sentiero, vista l’estrema peculiarità del genere suonato. È una questione di amore e odio. La loro presenza non guasta, tuttavia se non ci fossero molti di noi avrebbero uno spazio nell’anima difficile da riempire con altro. Chi è attratto da questo genere di sound ma ancora non li conosce, gli dia pure una possibilità; chi è già loro fan sarà in visibilio da mesi e quindi qualunque parola sarebbe superflua, e chi proprio non riesce a digerire il loro stile… beh, il mondo è pieno di band che aspettano di essere scoperte.
Per mia personale opinione e gusto ritengo che Oath Bound sia il disco del 2006, almeno finché una certa band svedese che anche porta il sigillo di Tolkien non decida di lasciare un marchio ancora più profondo. Staremo a vedere: quest’anno si prospetta davvero esplosivo.
TRACKLIST:
1. Bauglir
2. Across The Streaming Tide
3. Mirdautas Vras
4. Might And Glory
5. Beleriand
6. Northward
7. Menegroth
8. Land Of The Dead