Recensione: Obey
Con la determinazione di un commando armato, i sempre più coriacei Benedictum proseguono la propria strada d’acciaio, portando a quattro il numero delle stellette appuntate sulla divisa.
Sembrerebbe ancora più incazzata del solito la iper-vitaminica miss Veronica Freeman.
A giudicare dalla piega feroce assunta sul nuovissimo “Obey”, la simpatica definizione studiata da Frontiers per le vocals dell’imponente front woman – “il pitbull attaccato ai pantaloni dell’heavy metal” – si direbbe quanto mai azzeccata e pertinente.
Un po’ meno lezioso e raffinato rispetto agli album precedenti, ancora più massiccio, quadrato ed intollerante, il gruppo americano abbandona buona parte dei risvolti melodici messi in mostra sin qui per lasciarsi andare ad un disco di heavy metal dai tratti puri ed incontaminati: una percentuale inferiore di concessioni al facile ascolto, tanta potenza e grinta selvaggia in più.
Il rimaneggiamento della formazione, che ora vede in line up i due fondatori storici (miss Freeman ed il chitarrista Pete Wells), seguiti dall’ex Jag Panzer, Rikard Stjernquist alla batteria e dal misconosciuto Aric Avina al basso, ha probabilmente portato in qualche misura ancora maggiore “robustezza” nel sound del quartetto. Non che sinora doti come veemenza sonora ed ardore avessero mai difettato nel songwriting della band: questa volta però, pare proprio che la direzione intrapresa sia quella di andare incontro agli istinti più rudi, lasciando perdere tastiere, vaghi riferimenti prog ed agli anni settanta, per privilegiare la colata fumante dell’heavy primordiale, quello, per intenderci, marchiato a fuoco dalle ruote dentate della motocicletta che fu simbolo dello storico “Painkiller”.
In tutta onestà, ci pare che questa volta – fatte salve le consuete critiche imputabili alla mancanza d’originalità – l’operazione abbia riscosso un successo non esattamente pieno. Troppa la disparità tra la prima e la seconda parte del disco, caratterizzate da livelli qualitativi del tutto disomogenei e differenti tra loro.
L’urlo battagliero con cui l’album si apre, preludio dell’opener “Fractured”, è il presagio di una furibonda e poderosa sferzata di heavy metal “totalitario ed intollerante”. La voce della Freeman è un portento (la vera arma “definitiva” dei Benedictum): il solito misto, carico di adrenalina, che miscela Rob Halford e Ronnie Dio in una versione particolarmente inferocita.
Le ritmiche “mitragliate”, lasciano intravedere il tratto vigoroso del drumming del nuovo acquisto Rikard Stjernquist, cedendo a Wells il compito di cesellare riff alla KK Downing per l’intera durata del pezzo. Un inizio duro come l’acciaio temprato che però trova migliorie significative nei passaggi successivi.
È così: a noi i Benedictum piacciono di più quando insieme all’impeto devastante, piazzano qualche linea armonica che sappia aumentarne la debordante potenza. Un po’ quello che accade nella title track “Obey”, traccia che non può accettare un ascolto a basso volume e miscela i Judas di “Painkiller” con gli Overkill di “Necroshine”, lasciando spazio ad un ritornello piuttosto immediato.
Ancora meglio “Fighting For My Life”. Ecco i Benedictum che conosciamo ed apprezziamo dagli esordi: duri, ruvidi, compatti, con assolo circolari sempre di stampo Judas, ma con l’inserimento di qualche inciso in cui lasciare spazio a sprazzi di purissima melodia.
Sgommate heavy che potrebbero benissimo arrivare dai muscoli guizzanti di Ralf Scheepers e dei Primal Fear, sovrastano la possente “Scream”, quello che, a ragion veduta, possiamo probabilmente descrivere quale pezzo migliore dell’intero disco. C’è tutto: metallo incandescente, alone di drammaticità epica, solo da capogiro, vocals tanto intense da apparire disperate ed aperture melodiche d’impatto. Quando miss Freeman e sodali viaggiano su questi livelli, è davvero complicato reggerne il confronto.
Che poi i Priest del 1990 siano un po più di un punto di riferimento, non sfugge nemmeno agli ascoltatori di Tango argentino con le sventagliate terrificanti di “Evil That We Do”. Tutto, effettistica inclusa alla “Between The Hammer And The Anvil”, appare come un tributo ai leggendari Metalgod dell’irripetibile “Painkiller”.
Qualche oncia di gradimento in meno inizia tuttavia a manifestarsi con la sulfurea e cadenzata “Crossing Over”, passaggio “filler” che non cela particolari indimenticabili, trascinandosi lungo una traiettoria un pelo monotona ed ingombrante. Bello il solo di Wells, il resto non promette grandi memorie. Meglio lasciar quindi spazio all’unica ballata del cd, “Cry”, episodio di drammatica intensità impreziosito dalla partecipazione di Tony Martin, a simboleggiare un’unione di voci tra le più belle attualmente presenti in scena. Nulla di particolare il brano in se e per sé – una canonica ballad dai toni vagamente epici – il vero valore aggiunto sono, come ovvio, le performance vocali di due veri fuoriclasse del microfono.
Si torna a dar di mazza con il crescendo di “Thornz”, brano interessante per la ruvidezza del lavoro chitarristico e per l’eccezionale versatilità della Freeman. Dai crediti non appare alcun tipo di guest, eppure all’ascolto, risulta quasi evidente la presenza di due voci: una incazzosa e sguaiata, l’altra maggiormente elegante e sinuosa, alla Doro. Entrambe frutto di un’unica ugola a quanto pare: una conferma ulteriore dello status assoluto di maestria acquisito dalla “nerboruta” singer americana.
Ed è invece un peccato poi, ritrovare nuovamente i Benedictum alle prese con un mid tempo statico e poco coinvolgente. Come accaduto per “Crossing Over”, anche in “Die To Love You” l’attenzione si spegne con il procedere dei minuti: meglio rifugiarsi nella velocità tradizionale della successiva “Apex Nation”, pezzo che non ha nulla di originale o diverso da una qualsiasi composizione dei Primal Fear, ma almeno regala qualche tonnellata di pura energia.
Il finale è poi riservato alla lunga e sabbathiana “Retrograde”.
Un evidente omaggio a Ronnie Dio, ai Sabbath ed ai Rainbow che tuttavia nel suo voler essere complesso ed “importante” non raggiunge le vette colte da “Valkyrie Rising”, pezzo conclusivo del fulminante esordio “Uncreation”.
Qualche idea buona non propriamente sviluppata, rimane prigioniera di una composizione che non riesce ad elevarsi come vorrebbe. La voce di miss Freeman è sempre spettacolare, tuttavia i sette minuti di durata non paiono giustificati per un brano che a tratti si rivela un pizzico prolisso e “trascinato”.
Luci ed ombre dunque, per quello che, nel complesso, appare come l’episodio più debole realizzato sin qui dalla esuberante band statunitense.
Ad una prima parte ispirata, composta da momenti dinamici, di grande impatto ed energia, fa seguito un proverbiale “lato b” che non spicca, non lascia segni, non incide praticamente mai.
L’impressione definitiva è, insomma, quella di un disco altalenante, inferiore ai predecessori, pur se fornito di qualche momento riuscito e sopra le righe.
Dopo averne tessute le lodi, questa volta tocca un po’ bacchettare i comunque bravi Benedictum.
Del resto, non è che a pensare sempre ai Judas Priest, ti trovi poi per forza a comporre “Painkiller”…
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