Recensione: Obsidian
I Paradise Lost sono tornati. E non lo diciamo perché a distanza di tre anni, da “Medusa”, la band capitanata da Nick Holmes e Greg Mackintosh pubblica un nuovo album. Lo diciamo perché i Paradise Lost sono tornati a proporre quelle sonorità che li hanno catapultati ai vertici della scena metal mondiale.
Dopo un percorso di appesantimento del proprio sound – iniziato con “Faith Divide Us – Death Unite Us” e culminato con il ritorno alle origini, a quelle sonorità death-doom che hanno caratterizzato il monumentale “The Plague Within” e l’altalenante “Medusa” – il quintetto di Halifax ci regala un nuovo lavoro, dove la rabbia e la pesantezza lasciano il passo a quelle melodie che solo la formazione inglese sa proporre. Melodie che sanno toccare l’animo, nel profondo.
Bastano le battute iniziali di “Obsidian” – questo il titolo del quindicesimo album dei ‘Lost – per mettere le cose in chiaro (o forse è meglio dire nell’ombra). Il disco si apre con ‘Darker Thoughts’, autentico manifesto di quel sound decadente che gli stessi Paradise Lost hanno contribuito a forgiare. Il suo inizio è il perfetto biglietto da visita del disco: le melodie desolanti dell’arpeggio di Mackintosh, le orchestrazioni che ne enfatizzano le atmosfere, la voce pulita di Holmes, autentico cantore del fascino malato della solitudine. È su questi binari che si apre “Obsidian” ed è da qui che il nostro viaggio ha inizio. Sì, perché il nuovo lavoro dei Paradise Lost è un disco che va ascoltato dall’inizio alla fine, tutto d’un fiato. Con “Obsidian” il quintetto inglese ci prende per mano e ci conduce in un mondo parallelo, fatto di visioni criptiche, ermetiche, in cui a dominare saranno i colori freddi, in tutte le sfumature possibili. ‘Darker Thoughts’ esplode poi in un caleidoscopio di emozioni, in cui si alternano parti in chitarra distorta e in arpeggio, sorrette da una sezione ritmica capace di risultare sia energica, che delicata, in base alle esigenze della canzone. A dominare sono però quelle melodie decadenti che abbiamo citato in precedenza, valorizzate dalle orchestrazioni, in tutta la durata del pezzo. Al microfono poi c’è Holmes, pronto a fare la differenza, esaltando le emozioni che la canzone sa infondere, ricorrendo ora alla voce pulita, ora al growl, risultando convincente in entrambe le dimensioni. E siamo solo al primo pezzo.
Tocca poi a ‘Fall From Grace’, che rievoca alcune atmosfere respirate in “The Plague Within”, ma con un ritornello fottutamente nineties. E cosa dire di ‘Ghosts’ (qui il lyric video), il secondo singolo estratto dall’album? Definirla una sorta di ‘Say Just Words’ del nuovo millennio può essere rischioso, ma di sicuro non è un’eresia. E qui ci soffermiamo un attimo, per una piccola riflessione. La colonna portante di “Obisdian” trova le sue radici proprio negli anni Novanta. Lo so, quando ci troviamo al cospetto di un nuovo lavoro di un gruppo della caratura dei Paradise Lost, quello che vogliamo, per capire al meglio la qualità del disco, è un confronto con il passato della band. Tanto più se ci imbattiamo in affermazioni come questa. Beh, proviamo a immaginare un “Faith Divide Us – Death Unite Us”, con una produzione potente e cristallina, figlia diretta del 2020, in cui le canzoni presentano un marcato animo nineties. Basta ascoltare ‘Forsaken’ per accorgersene, o ‘Hope Dies Young’ uno degli assoluti highlights del disco, che entrerà di diritto nelle prossime scalette live della band inglese. Una canzone capace di rievocare lo spirito di “Draconian Times”. Ecco, l’ho nominato. Mi ero prefissato di non citare il disco del 1995, ma sono caduto nel tranello di “Obsidian”. Sì perché, tra le righe, l’eco di “Draconian Times” compare in alcune delle composizioni del nuovo lavoro dei ‘Lost. Un qualcosa che dona ulteriore magia al platter. Senza scordare alcune atmosfere figlie dirette di “The Plague Within”, che possiamo incontrare in ‘Serenity’, o nella conclusiva ‘Ravenghast’.
Da sottolineare poi la prestazione al microfono di Nick Holmes, che può essere definita con una semplice parola: sensazionale. Il cantante risulta convincente, coinvolgente, travolgente. Usa tutto il suo spettro vocale, passando dal pulito al growl, alle note di petto. È come se ci fossero più voci, più personaggi pronti a narrare una storia, in tutte le sue sfumature. Il cantante interpreta così alla perfezione il tema che sta alla base dei testi criptici di “Obsidian”: il Butterfly Effect. Il concetto che una scelta, un’azione anche piccola, insignificante, condotta oggi da un individuo, possa avere delle ripercussioni sulla sua vita, anche a distanza di anni.
Credo non serva aggiungere nient’altro. “Obsidian” è un disco da avere, da ascoltare, da divorare. Appena riapriranno i negozi di dischi, entrateci e fatelo vostro. Stiamo parlando di un lavoro destinato a finire tra i papabili candidati al titolo di album dell’anno, e scusate se è poco. Un lavoro che ci regala una formazione in forma smagliante, ispirata, con ancora tanto da dire. E se dopo oltre trent’anni di carriera una band sa sfornare un disco di tale intensità, beh, non possiamo che inchinarci al suo cospetto. I ‘Lost son tornati, lunga vita ai ‘Lost!
Marco Donè