Recensione: obsYdian

Di Daniele D'Adamo - 26 Luglio 2024 - 0:00

L’industrial, genere che realizza visioni di mondi dominati dalle macchine ma anche da uomini che di dette macchine ne fanno un uso anche smodato, come si sa è sostenuto da un cospicuo tappeto di elettronica. Tanta, elettronica. Tanto è vero che, non a caso, il Paese in cui vivono le band più famose, Rammstein in primis, è la Germania. Patria di coloro che delle più gelide sequenze digitali hanno costruito la propria carriera, determinandone uno stile di vita vero e proprio: i Kraftwerk.

La genesi delle fogge musicali è sempre nebulosa poiché segue un percorso evolutivo sfumato ma quando l’industrial ha incontrato il metal, ecco che il connubio ha dato vita a band come i Fear Factory in cui, accanto alla tecnologia applicata, è cresciuta a dismisura la potenza. Come nel caso dei Soulbound che, con “obsYdian”, giungono al quarto album in carriera.

Certo, questi ultimi utilizzano dettami parecchio distanti da quelli sui quali Dino Cazares ha eretto il suo impero, purtuttavia più di una similitudine c’è. Che, fondamentalmente, insiste nell’antitesi fra il fragore delle note e l’armoniosità dei ritornelli. E, a proposito di questi ultimi, fa la sua parte con grande abilità Johannes “Johnny” Stecker, il cantante. Capace di interpretare le linee vocali più dure con disinvoltura, toccando harsh vocals urlate a tutta gola, ma anche di accarezzare i timpani con le clean, di vocals. Non mancando di ridurre al minimo la forza reattiva dei polmoni con morbidissimi tratti quasi sussurrati (‘Heartless’).

Una prestazione totalmente professionale che si coniuga a quella dei suoi compagni di avventura per una formazione in grado di esprimersi perfettamente, nel senso di un’esecuzione senza macchia, che dà l’idea che i Nostri siano in grado al 100% di mettere su rigo ciò che frulla nelle loro menti. Il che li aiuta, anche, a elaborare uno stile assai personale, riconoscibile con facilità, manco a dirsi, grazie al tono delle code vocali di Stecker.

Non solo lui, però. Anche il sintetizzatore, manovrato con abilità da Patrick Winzler, fornisce un aiuto importante per la definizione dei segni caratteristici del combo teutonico. Questo perché, oltre a supportare in sottofondo l’impatto sonoro (‘Paralyzed’), la sua opera si manifesta anche come strumento principale (‘Remain (Part 1)’).

Quello che tuttavia colpisce di più, ed è proprio il caso di dirlo, è l’erogazione dei watt, davvero incisiva e possente, derivante da una sezione ritmica che non fa prigionieri. Invece di esagerare con i BPM, infatti, Jonas Langer (basso) e Mario Krause (batteria), si concentrano sulla vigoria del sound che, obbediente, forma una struttura robusta, non particolarmente complessa, sulla quale si poggiano le varie canzoni.

Canzoni, ecco. È qui che insiste il maggior talento del quintetto di Bielefeld. La capacità di scrittura. Il sound, sì, certo, è importante, ma il focus è principalmente sui singoli brani. Che, per la loro bellezza, sono quelli che in realtà definiscono univocamente “obsYdian”. Tutte le tracce, e qui bisogna ringraziare pure il lavoro a tuttotondo del chitarrista Felix Klemisch, sono dotate di una profonda anima melodica e di una personalità fuori dal comune.

Di questi tempi è piuttosto raro trovare qualcuno che sappia dar vita a delle vere song metal, di quelle che s’imparano a memoria, di quelle che rimbalzano per mesi all’interno della scatola cranica, di quelle che strappano il cuore, di quelle da cantare nel pit oppure davanti agli speakers. I Soulbound ci riescono, assemblando un collage di pezzi di altissimo livello compositivo. C’è la super-hit, e cioè ‘Forever in the Dark’ che, non si tema, non si ascolterà mai in un centro commerciale per via della più volte menzionata potenza di un sound che a questo punto si può anche definire monumentale.

Beh, per non annoiare c’è poco altro da scrivere. Al contrario, per vincere il tedio della vita moderna, è tempo di ascoltare!

Daniele “dani66” D’Adamo

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Band: Soulbound
Genere: Industrial 
Anno: 2024
80