Recensione: Oceans of Slumber
Quando disco porta come titolo il nome della band che lo ha composto, scatta sempre una sorta di campanello d’allarme. Non hai neanche uno straccio di fantasia per il nome del tuo nuovo prodotto o vuoi davvero comunicare qualcosa? Ecco, nel caso degli Oceans of Slumber il caso pare essere il secondo. La formazione statunitense, infatti, torna dopo solo due anni di distanza, con una formazione rivoluzionata, con tre nuovi elementi su sei. Rimangono al loro posto Cammie Galbert, autentico marchio di fabbrica degli OOS, il tastierista Mat V. Aleman e il batterista Dobber Beverly. Tutta nuova invece, la sezione corde (e con essa la sezione voci secondarie).
Di lì la classica serie di dichiarazioni sul fatto che questa è “la migliore formazione di sempre” e che “il sound è stravolto”. È il marketing musicale del XXI secolo, lo sappiamo.
Di fatto, comunque, da parte di molti “Oceans of Slumber” ha ricevuto critiche entusiaste che inneggiano a “svolte intimiste” e quant’altro.
In realtà, però, dopo il primo ascolto, l’unico pensiero che frulla in testa è che il titolo dell’album sia quantomai azzeccato. Sarà che il platter dura 71 minuti e che le canzoni sono davvero molto strutturate, ma il primo ascolto termina davvero con la sensazione di nuotare in mezzo a degli oceans of slumber (oceani di sonno). Ecco, se anche voi doveste avere questa sensazione, non demordete. Il primo ascolto porta con sé (almeno per chi scrive) tutta una serie di impressioni sbagliate. Ne volete un’altra? L’idea che in quest’album ci sia troppo growl, quando in realtà le harsh vocals sono pressoché assenti.
Andando avanti, però, ed immergendoci nelle atmosfere cupe dei vari pezzi, l’album mette in mostra tutto il suo autentico fascino. Cioè. C’è da dire che l’album sembra diviso in due parti, con la prima più debole della seconda. La opener “Soundtrack of my last day” non è, ad esempio, un cattivo pezzo, ma è derivativo al livello dei Soliloquium. E il discorso può essere ripreso per “The adorned fathomless Creation” o “Total Failure”. Molto meglio in tracce come “Pray for fire”, che inizia come una sorta di tributo a “Harvest” degli Opeth e poi si evolve in mille sfaccettature, tra atmosfere sognanti e timbriche doom, o con “Return to the earth below”, che pare uno strano incrocio tra i già citati Opeth e i Massive Attack di “Blue Lines”.
Ecco i Massive Attack sono una band che ascoltando “Oceans of Slumber” balzano alla mente più di una volta, e non solo per le timbriche black (stavolta intese ovviamente come afroamericane) di Cammie Galbert. Un caso lampante? “Return to the Sea”, che pare veramente un pezzo della band di Bristol (a inizio carriera), fatto di atmosfere rarefatte e bravura vocale. “Return to the Sea” apre poi un trittico favoloso di canzoni che danno pieno senso alle voci sulla svolta intimista degli OOS. Le altre sono “The Colors of Grace”, pezzo in odor di new metal con un bel duetto di voci pulite e la monumentale “I mourned these yellow leaves”, davvero una spanna sopra a tutto il resto del disco.
Ci sarebbero altre cose da dire (menzionando ad esempio la riuscita cover dei Type O Negative in chiusura), ma in definitiva il quadro è già chiaro così. “Oceans of Slumber” fotografa una band molto in forma e molto ispirata, estremamente derivativa ma che finalmente cerca di dare una svolta decisa ed effettivamente intimista al proprio sound, che fin qui si era sempre distinto essenzialmente per le tinte afroamericane delle vocals. Al netto della rivoluzione nella lineup, dunque, gli OOS si confermano una band in costante crescita e dimostrano di volersi meritare tutto il loro successo senza però snaturare la natura molto complessa della loro musica. Cosa che con una frontwoman è tutto fuorché scontata (scontato sarebbe l’esatto contrario). Certo, in 71 minuti di musica non mancano sbavature e momenti un po’ prolissi, ma del risultato finale si può essere assolutamente soddisfatti.