Recensione: Octagon
Nella storia capitano annate in cui buona parte degli artisti decide di pubblicare album che si rivelano in seguito di importanza storica; una di queste annate è proprio il 1995, che vede una virata “di coscienza” molto importante nel black metal scandinavo.
Qualsiasi album creato in quell’annata potrebbe dunque potenzialmente rappresentare qualcosa di più importante di una semplice release; in questo caso, abbiamo a che fare con il prodotto di un artista innalzato al rango di vero e proprio mito grazie a una vita defilata e piena di misteri e a una morte improvvisa e inspiegabile.
Una cosa è certa: anche i Bathoriani più sfegatati si trovano in difficoltà quando si arriva a parlare di album come Requiem, Octagon e Destroyer of Worlds, comunemente considerati la triade più odiata dell’intera discografia ufficiale di Quorthon. Privi di scusanti temporali o di abilità, quei tre album si trovano schiacciati tra lavori celebrati universalmente come Blood on Ice, i Nordland e la triade epica prodotta a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e considerata precursore del movimento Viking Metal che 20 anni dopo conterà milioni di fan sparsi in ogni angolo del pianeta.
Facile rivalutare Destroyer of Worlds grazie alle quattro epiche che da sole reggono un album squinternato e molto intimamente quorthoniano, ma che dire di Requiem – e soprattutto, di Octagon?
Il nome non è certo il massimo della fantasia – è l’ottavo album della sua carriera – e abituati a tutte le stranezze accadute in passato (tracce mancanti, tracce unite, titoli in ordine alfabetico, strampalati rimandi esoterici) ci si sarebbe aspettato un album quantomeno interessante dal punto di vista intellettuale.
E invece Octagon non fa altro che confermare la grande verità su Bathory: l’imprigionamento in un solo genere non gli era congeniale, nemmeno quando gli portava fama e supporto finanziario.
Il grande amore di Quorthon è sempre stato il thrash: la sua carriera è iniziata con il thrash, da una costola del thrash ha generato il Black Metal e sempre nel thrash alla fine è voluto ritornare: impossibile non vedere in Hammerheart – la canzone, intendo – un vibrante treno funebre che al tempo probabilmente volle significare “Bathory è morto, lunga vita a Quorthon”. E dire che, quando decise di darsi al suo personalissimo rock, non si fece troppo problemi a formare un’altra “band”, ma evidentemente, a conti fatti, Album non generò un gran ritorno finanziario, e Black Mark non poteva di certo permettersi tanti colpi di testa: già dai tempi di The Return, il nome Bathory aveva un richiamo che si disperdeva in buona parte del globo terrestre, e l’idea migliore era sicuramente quella di introdurre qualsivoglia prodotto Quorthoniano in un involucro che riportasse a grandi lettere il nome “Bathory”.
Dopo anni di arrovellamenti sono giunto alla conclusione che, in fondo in fondo, Quorthon non amasse l’epic tanto quanto amasse il Thrash. Il suo periodo epic proveniva da una specie di ribellione forzata, da una volontà di distacco dal mondo musicale che stava prendendo una piega che a lui non stava andando a genio; durante il periodo di Hammerheart aveva reso chiaramente noto che il satanismo ormai era diventata un’arma per ragazzini e che la vera ribellione proveniva dall’annientare il cristianeimo tramite l’esaltazione delle care vecchie radici pagane e non tramite l’utilizzo di un sottoprodotto del cristianesimo stesso, come Satana, Belzebù e diavolerie varie. Certo fu una dichiarazione al netto di tre album (Bathory, The Return… e Under the Sign of the Black Mark), ma quelli erano altri tempi e un’altra testa. E soprattutto, il mondo della musica benpensante – del quale faceva parte anche il death metal di allora – aveva altri demoni da combattere, come Ozzy, i Venom e in genere tutto il movimento oscuro anglosassone che tanti nasi fece storcere negli anni ’70. Tornare al thrash dopo tanto tempo e tanto successo significava davvero una cosa: soddisfare le proprie pulsioni a costo della reputazione. Il bilancio di una simile operazione, durata tre album e sei anni, si può dire indubbiamente negativo a corto raggio e positivo a lunghissimo raggio.
Requiem e Octagon non vennero accolti bene: fiumi di critiche piovvero da ogni dove, tanto che in molti giunsero alla conclusione che Quorthon fosse tornato al thrash perché non era più capace di comporre album epici. In pochi capirono davvero che il periodo epico era da considerarsi una parentesi fin dall’uscita di Blood, Fire, Death, e che l’ispirazione “viking” di Quorthon aveva bruciato incontrollabilmente e genuinamente fino al 1991, ma che ora doveva lasciare spazio a un nuovo corso.
Certo, poi c’è un intruso: in Blood on Ice intervenne il Quorthon artigiano, il Quorthon in grado di penetrare le menti dei propri fan e di ribaltarle come un calzettone appena lavato. Blood on Ice fu, bianco su nero, il gesto di un maestro che zittisce stizzito una classe querula prima di proseguire per il proprio cammino thrash, fino alla cesura del 2000 e alla pianificazione della seconda trilogia epica, iniziata con intenti del tutto differenti rispetto a quelli che guidarono la prima trilogia… e sfortunatamente mai conclusa.
Abbiamo dunque percorso quello che a tutti gli effetti è stato un “reverse engineering” dell’opus dei Bathory: laddove si tende ad aggiungere gli album per definire la personalità di Quorthon, qui ne abbiamo sfrondata la discografia per rivelare il cuore di Bathory: tolta la prima trilogia thrashblack, brodo primordiale senza forma né direzione che ha formato l’uomo e il musicista Quorthon; tolta la prima trilogia epica, frutto di ribellione; tolta la seconda trilogia epica incompiuta, frutto di necessità, e tolto Blood on Ice, frutto di una mera dimostrazione di forza, rimangono proprio tre album all’apparenza inspiegabili, non sincronizzati con il resto della produzione, tre brutti anatroccoli che però rivelano la vera faccia di Quorthon, quella quotidiana, svestita dei panni di scaldo norreno e di profeta di Satana.
Octagon, in particolare, rivela il Quorthon amante dei giri di chitarra puliti e ben definiti immersi in un uragano di sonorità grezze, brutali, direttamente provenienti dal thrash primordiale da cantina americana. Tra “War Supply” e “Schizianity” sembra di ascoltare un demo degli Slayer, e quanto questo album omaggi Slayer o Metallica, ma persino i primi Megadeth, stante anche la voce inconfondibile di Quorthon che sembra in un certo senso scimmiottare Mustaine, è quasi indicibile.
La drum machine batte selvaggia e le canzoni, che ruotano tutte attorno a un tipo diverso di patologia dei tempi moderni, non lasciano molto all’immaginazione. Giri semplici, orecchiabili, con distorsioni ridotte ai minimi termini e trascinati a livelli disumani, registrati male e postprodotti ancora peggio. Il coraggioso incipit di “Immaculate Pinetreeroad #930” si rivela un autentico cazzotto in un occhio a chi acquistò l’album facendosi incantare dalla copertina, obiettivamente intrigante, e dall’attesa di un album che rievocasse antichi ed epici splendori. Nel 1995, senza myspace e p2p, si andava molto più sulla fiducia rispetto a ora, e in molti devono essere rimasti bruciati all’epoca dalla fiducia riposta in Bathory. Unica eccezione nel panorama di brani più o meno prevedibili è la spesso apprezzata “Born to Die“, impreziosita da cambi di rotta melodici piuttosto originali e da un’intro abbastanza inaspettata. Tutto il resto è incanalato in un torrente di violenza che parte dal cuore e arriva al microfono senza passare dal cervello. Probabilmente, se non fossero l’aspetto che definisce una canzone, Quorthon avrebbe persino trascurato l’uso del cantato, qui anzi più curato e melodioso rispetto all’inascoltabile Requiem, vista la qualità decisamente irrilevante del messaggio trasmesso.
Se Octagon sarebbe accettabile ai giorni nostri? Difficile dirlo: oggi come allora, probabilmente verrebbe liquidato come il prodotto di un sedicenne con troppi pochi soldi per comprarsi un amplificatore decente. Ma per Bathory si è sempre fatta un’eccezione. Una delle voci più riconoscibili dell’intero panorama metal e una di quelle personalità a cui si perdona praticamente tutto. Ora più che mai, non avrebbe senso rinfacciare un album come Octagon a un artista del genere: per “ordinare” a Quorthon di “smetterla con questo thrash da quattro soldi e tornare all’epic”, bisognerebbe prima portarsi sul suo stesso piano, e poi rischiare di incatenare una mente geniale come quella in qualcosa che non vuole fare: è la morte della libera ispirazione, e chissà che quei pochi che hanno subodorato una certa forzatura nei Nordland non abbiano visto più lontano di tanti altri. Non lo sapremo mai, ma una una cosa è certa: per chi vi scrive, un “Sudden Death”, un “33 Something“, un “Boy”, o le cover spiazzanti di “Deuce” o “Ace of Spades”, rispecchiano un Quorthon più limpido di quello di un “Vinland” o di un “Gods of Thunder, of Wind and of Rain”.
Ma sono pareri che non possono più distaccarsi dalla sfera della soggettività. Octagon, come Requiem, è un prodotto che solo i fan avranno il fegato, e lo stomaco, di digerire e di giustificare. Chi cerca semplicemente buona musica, ne troverà a palate in ogni dove… mentre chi cerca buon thrash metal old school, potrà scavare negli archivi del tempo che fu, piuttosto che mettere le mani su un disco arrivato troppo tardi… e tutto sommato nemmeno in grandi condizioni fisiche.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
1. Immaculate Pinetreeroad #930
2. Born To Die
3. Psychopath
4. Sociopath
5. Grey
6. Century
7. 33 Something
8. War Supply
9. Schizianity
10. Judgement Of Posterity
11. Deuce