Recensione: Of What’s To Come

Di Sandro Galati - 21 Novembre 2008 - 0:00
Of What’s To Come

Of What’s to Come; già il titolo stesso del nuovo album della band capitanata da Erik Lindmark potrebbe assurgere a chiave di lettura di un album “diverso” rispetto ai comunque alti standard a cui la band californiana ci ha abituati fin dal loro ottimo Trading Pieces (full-length d’esordio datato 1996). Con questa nuova uscita ci troviamo al cospetto di un album che sorprenderà molti. A tal proposito il titolo sembra anche metterci in guardia nei confronti di qualcosa che sembra essere inevitabile, inesorabile e schiacciante; anche se il tutto andrà certamente inteso in un contesto più ampio mi piace pensare che questa sia la prima intenzione dei “nuovi” Deeds Of Flesh nei riguardi di chi si appresta al primo “scontro” con la loro nuova creatura feroce e altera.

In campo brutal-death di mutamenti più o meno repentini e portentosi se ne sono visti e sentiti parecchi in questi ultimi convulsi anni; sia che si tratti di nuove leve o vecchie conoscenze la dilagante tendenza all’incremento esponenziale del tasso tecnico, di una maggiore ricerca armonica, strutturale, compositiva e di maggiore attenzione tesa al miglioramento di suoni e produzione è cosa ormai evidente a tutti, anche ai detrattori che non vedono di buon occhio tale processo di “raffinazione” che andrebbe a discapito di genuinità e immediatezza.
Per quel che mi riguarda non posso che ritenermi graziato di tale “raffinazione” quando la stessa porta a certi risultati innegabilmente straordinari: pensate a cosa sono riusciti a tirar fuori geniacci come Decrepit Birth, The Monolith Deathcult, Origin, Psycroptic, Anata… per intenderci. In alcuni di questi casi il cambiamento è avvenuto lentamente, a strati e per gradi, mentre in altri è stata una vera e propria rinascita sotto diversa forma e sostanza pur conservando molti tratti distintivi fondamentali (DNA).
Il caso dei Deeds Of  Flesh sta nel mezzo: di primo acchito sembrerà quasi di ascoltare un altra band ma dopo averci preso una certa confidenza e dopo aver rimesso al proprio posto la nostra povera mandibola (andata giù di schianto) capiremo che è esattamente come ritrovare un caro amico dopo qualche anno: magari lo ritroviamo cambiato ma, passati i primi istanti di spiazzamento, noteremo che tale cambiamento ha solo arricchito la sua personalità senza avercelo reso estraneo. Ecco, credo sia proprio questo il caso dei californiani in rapporto a chi li ha seguiti fin dai loro primi passi.

L’incipit di Waters Of Space a suo modo epico non fa che confermarci le impressioni intuite fin dal dal titolo: apertura atmosferica e sinistra, accattivante e fregiata da un guitar solo semplice ma dal tocco sublime. Dopo questa sorta di “intro” il brano si esprimerà in un torrente inarrestabile di brutalità coadiuvata (e qui una delle novità sopra accennate) da un’inedita ricerca armonica che non mancherà di risultare spiazzante. C’è davvero di che rimanere (piacevolmente) sorpresi. Nonostante tutto suoni più complesso, stratificato e articolato non mancherà di essere al contempo groovy e fruibile, in parole semplici: nessun caso di “masturbazione” strumentale purtroppo comune a diverse bands che si sono cimentate e si cimentano con risultati alterni in tali intenzioni.
Rimarrete sorpresi dalla quantità e dalla qualità di guitar solos da brividi; dalla maggiore espressività e dinamicità delle vocals (dai tratti più death oriented che brutal) e dall’imbarazzante estro elargito da parte della sezione ritmica (e anche qui, a rimpiazzare Jacoby Kingston, ritroviamo un certo Caspersen al basso: mostruoso!). I riff si susseguono e inseguono vorticosi e taglienti, di qualità eccelsa; la fitta rete di armonizzazioni e stop & go presenti in Unearthly Invent regalerà un largo sorriso a molti, cosa che, ne sono certo, del resto accadrà per ogni brano. Virvum è una cavalcata tech-brutal strepitosa: veloce, complessa, ricca di umori differenti ma sempre “leggibile”, non un singolo momento di calo qualitativo. Quanto scritto finora è totalmente applicabile all’intero platter. Mi riesce davvero difficile descrivere le emozioni provate nei confronti di ogni brano: ispirazione e ricchezza tutta da scoprire.
È come se ad una promettente festa ogni straordinario avventore portasse con se e in se quegli ingredienti utili per farla diventare ben più che piacevole, memorabile: la particolare e inusuale ricerca armonica dei già citati Anata di The Conductor’s Departure e dei (riformati?!) Broken Hope; il tocco e il genio sublime dei Death mutuato in seguito in chiave più brutale da Decrepit Birth e Necrophagist. In molti casi sembra anche di sentire certi ispirati e fondamentali Deicide dei bei vecchi tempi andati… ma tranquilli, rimarco che contemporaneamente a queste molteplici nuove sfumature, gli ospiti (i Deeds Of Flesh) rimangono sempre al centro dell’attenzione, sicuramente più accoglienti ma con le loro caratteristiche peculiari ancora forti e ben in evidenza. Nessun snaturamento di sound quindi ma solo una sana maturazione portata a compimento con grande ispirazione e attitudine.
Brutal death metal tecnico espresso in maniera eccelsa per l’intera durata (circa 40 minuti): l’alchimia è totale.

L’artwork non poteva non essere agli stessi livelli musicali; per come la vedo io siamo di fronte ad una delle front cover più ispirate, evocative ed efficacemente “Death Metal” di sempre. Riesce a farmi ricordare certi capolavori di casa Malevolent Creation ad opera del grande Dan Seagrave.

Direttamente dalla loro pagina ufficiale MySpace: “Do not demand what you cannot take force!”. Per fortuna a noi basteranno pochi spiccioli per accaparrarci questo loro nuovo masterpiece.

Sandro ‘sand’ Galati

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Tracklist:

1.Waters of Space
2.Eradication Pods
3.Unearthly Invent
4.Of What’s to Come
5.Virvum
6.Century of the Vital
7.Harvest Temples
8.Dawn of the Next
9.Infecting Them With Falsehood