Recensione: Ogre Tones
Lunga storia quella dei King’s X, rock band del nuovo continente attiva sulle scena da ormai una ventina d’anni. Una storia che ha visto la formazione statunitense scrivere pagine di valore nelle cronache dell’hard ‘n’ heavy, dall’esordio del 1988 con Out of the Silent Planet fino ai giorni nostri, intraprendendo anche diverse collaborazioni di prestigio. Tra queste spiccano lo split del 1991 con i Kiss, ma anche il matrimonio sfiorato una anno prima dal singer Dough Pinnick con i Deep Purple e la partecipazione dallo stesso nel 1997 al lavoro dei Dream Theater su Falling into Infinity.
Un rock solido che recuperava le sonorità inconfondibili dei Beatles, irrobustite dalla successiva esperienza sabbathiana, era il marchio di fabbrica del terzetto americano, una proposta vincente soprattutto nei primi anni di vita della band, quelli che forse meglio ne incarnano il potere espressivo.
Un potere che oggi pare purtroppo perduto. Ogre Tones è qualcosa che il sottoscritto non avrebbe mai voluto ascoltare da una band che, pur senza farlo innamorare, aveva offerto lavori degni di grande apprezzamento. Purtroppo la genuina spontaneità dei tempi che furono è stata irrimediabilmente corrotta, e si è tramutata in un sound a cavallo tra modernismo e vetustà, che da entrambi ha preso il peggio, così da annegare i buoni propositi in un mare di banalità.
Se non altro, si può riconoscere che il disco si dimostri sincero nella sua pochezza fin dalle prime battute. Senza troppe cerimonie, infatti, la tremenda opener Alone va subito a prender posto ai confini dell’inascoltabile, col suo urlaccio iniziale da band di teenager frustrati, con la sua breve strofa avvinazzata, col suo ritornello monotematico ossessivamente riproposto con imperterrito sadismo per un numero di volte nettamente superiore alla soglia dell’umana sopportazione. Si fa fatica ad arrivare in fondo, e per una canzone di durata inferiore ai tre minuti si può dire che questo sia un sintomo piuttosto preoccupante.
La situazione non migliora più di tanto nei passaggi successivi, e quel po’ di buono che emerge soprattutto dai fraseggi acustici di Honesty e nelle individualità ben amalgamate in Mudd viene brutalmente affossato da obbrobri in musica come la sfiancante Sooner or Later, l’inspiegabile Bam (da quando rumori casuali e campionamenti parlati sono classificati sotto la voce “musica”?) o la crudele doppietta Open My Eyes/Freedom, tanto monodiche, tediose e scontate da far rimpiangere quei pezzi – mediocri – che non si azzardano a superare la soglia del terzo primo.
Addirittura, un pezzo che in altre circostanze si sarebbe potuto archiviare come esperimento fallito, la pseudo-sperimentale Bebop, in uno scenario scarno e desolante come quello in cui è immerso finisce per essere parzialmente rivalutato e a conquistarsi qualche attenzione in più. Ma il titolo ingannatore non induca taluno ad aspettarsi di riconoscere nelle note ricucite in questi quattro minuti di musica, di cui si fa apprezzare prevalentemente il lato ritmico e la citazione da Tutti Frutti di Little Richard (che comunque, sia chiaro, c’entra davvero come i cavoli a merenda), il genio ribelle dell’innovatore Charlie Parker.
Dunque in breve, quali sono i difetti capitali di quest’album? Senza dubbio la disarmante fragilità delle melodie, che cercano di mascherare sotto una coltre di chitarroni sporchi la propria inconsistenza, e la loro ripetitività, vano tentativo di ovviare alla detta mollezza affidandosi ai mezzi di un certo pop di bassa qualità, quello che martella l’inerme ascoltatore di motivetti semplici e orecchiabili fino a prenderlo infine per sfinimento.
Sebbene l’intento di fondo possa sembrare il recupero delle soluzioni vincenti dei primi lavori, l’eccesso di contaminazioni finisce tuttavia per inficiare in modo troppo profondo il trademark di fine eclettismo che aveva contraddistinto i passati successi, depistandolo su una rotta troppo ruffiana nei confronti di quelle nuove generazioni che al rock vitale degli anni ottanta preferiscono l’aggressività di plastica di quello stanco e insoddisfatto del decennio successivo.
Non si può sapere quali direzioni imboccherà domani la carriera di questa band, che pure in passato ha avuto tanto da dire, e che oggi sembra solo cercar di ripetere, balbettando, qualcosa che in queste condizioni non merita affatto di essere pronunciato. L’augurio per il futuro non necessita neppure di essere espresso; quanto al presente, si può solo consigliare vivamente un ascolto preliminare, almeno a chi voglia evitare di gettar alle ortiche il prezzo del biglietto.
Tracklist:
1. Alone (2:57)
2. Stay (2:23)
3. Hurricane (3:31)
4. Fly (2:43)
5. If (2:58)
6. Bebop (4:00)
7. Honesty (2:42)
8. Open My Eyes (4:03)
9. Freedom (3:21)
10. Get Away (3:25)
11. Sooner Or Later (7:00)
12. Mudd (4:41)
13. Bam (2:43)