Recensione: Okkult II

Di Marco Tripodi - 6 Luglio 2018 - 8:00
Okkult II
Band: Atrocity
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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65

Onorano la promessa fatta nel 2013 gli Atrocity, quella di dar corso ad una vera e propria epopea discografia, che dovrebbe vedere tre capitoli realizzati e che oggi saluta il secondo episodio “occulto”, dopo appunto il primo album di un lustro fa. Lo scorso anno l’EP anticipatorio “Masters Of Darkness” aveva fatto pregustare quattro tracce, tutte poi regolarmente presenti nella scaletta di “Okkult II“, a cominciare naturalmente dalla titletrack, che qui diventa la opener dell’album. Con molta enfasi il disco viene ricondotto ai momenti più virulenti della carriera della band tedesca; trattandosi di death metal, il riferimento obbligato è agli esordi di “Hallucinations” (’90) e “Todessesehnsucht” (’92), nonché – sorprendentemente – a lavori come “Blut” (’94) e “Atlantis” (2004). Da fan sempiterno della band questi paragoni mi sembrano abbastanza fuori luogo, per ragioni diverse. Nel caso dei rimandi alla fase schiettamente death metal dei primi ’90 degli Atrocity, il parallelo non regge perché quel death era profondamente diverso dall’attuale. Album come i suddetti “Hallucinations” e “Todessehnsucht” mettevano in luce una forte componente sperimentale, avanguardista, sperimentatrice, c’era curiosità nel sound di Krull e compagni, si avvertivano venature progressive, un tecnicismo esecutivo notevolissimo, in definitiva una iconoclastia ed un totale disinteresse verso l’osservanza pedissequa dei canoni del genere, tanto da trasformare gli Atrocity in una repubblica a sé stante rispetto a tanti colleghi di recinto. Esattamente ciò che manca ad “Okkult II” e più in generale agli Atrocity dell’ultimo decennio.

Blut” e “Atlantis” invece sono davvero un esempio curioso, che personalmente avrei usato semmai per far risaltare cosa gli Atrocity oggi non siano (più). “Blut” è l’album del cambiamento, della transizione verso sonorità che abbandonano quasi del tutto la componente death per cercare sfumature gotiche, atmosferiche, decadenti. Le partiture si fanno decisamente più moderne, ricercate e la componente avantgarde aumenta a dismisura, in una traiettoria inversamente proporzionale a quella death. Semmai più pertinente sarebbe potuto essere un gemellaggio con il successivo “Willenskraft” (’96) che in parte recupera aggressione e brutalità, ma sempre sotto una pelle oramai irrimediabilmente mutata in casa Atrocity. “Atlantis” poi è veramente distante anni luce da “Okkult II“; ok, ha qualche sfuriata persino in blast beat e certamente la componente sinfonica può costituire un vago trait d’union tra le due prove, ma per il resto le melodie e le ruffianerie di canzoni come “Sunken Paradise“, “Gods Of Nations“, “Cold Black Days” sono del tutto assenti nel songwriting targato 2018 della band.

Lo stato di forma dei figli del Baden-Württemberg fa ancora più impressione se affiancato a dischi come “Die Liebe” (’95), “Calling The Rain” (’95) o “Gemini” (’00), praticamente un altro gruppo rispetto all’attuale. Ed in effetti proprio di un altro gruppo si tratta poiché la line-up storica degli Atrocity, comprendente Christian Lukhaup (basso) e Mathias Röderer (chitarra) si sfalda all’indomani di “Atlantis“. Il batterista storico Michael Scharz aveva già lasciato nel ’97, con il primo “Werk 80” (le riproposizioni in chiave metal di celebri hits pop degli anni ’80), ma è col secondo (2008) che gli Atrocity divengono sostanzialmente un progetto nelle mani dei soli Alexander Krull e Thorsten Bauer; intendiamoci, Krull è sempre stato l’azionista di maggioranza, il Dave Mustaine della situazione, tuttavia finché il gruppo è poggiato su una vera line-up fatta di musicisti creativi e sopraffini quanto a gusto e talento, gli equilibri interni sono sempre stati ben bilanciati. Ora gli Atrocity non perseguono più ricerca e sperimentazione, non sembrano più interessati ad aprire nuove frontiere, colonizzare nuove aree del pentagramma e ibridare quanto più possibile la propria fisionomia, “Okkult II” è un disco estremamente conservativo, un album di mero consolidamento, di (ri)affermazione di una personalità già vista all’opera agli esordi e dunque vecchia di quasi 30 anni. Evidentemente ad un passo dagli -anta anagrafici, Krull sente il bisogno di fermarsi e mettere i puntini sulle “i”. Chi non conosce la band o magari ha ascoltato solo gli ultimissimi lavori potrà forse rimanere soddisfatto del fortissimo impatto che una locomotiva sferragliante lanciata a tutta corsa come “Okkult II” può evocare, ma vi manca un bel pezzo del dolce, anzi per la verità è come averne preso una fetta, l’ultima rimasta e non avere la minima idea di quanto fosse grande e variegata tutta la torta.

Il primo “Okkult” marciava nella stessa direzione, tuttavia perlomeno metteva in mostra una serie di canzoni minimamente più ispirate ed un timido rimasuglio di variazione sul tema (“Satan’s Braut” ad esempio si ricollegava un po’ al periodo “Gemini“). Questo sequel è un lavoro che alle mie orecchie suona tremendamente monocorde, monotono, prevedibile, a tratti persino banale. Suonato a mille, prodotto magnificamente, impacchettato altrettanto (a livello iconografico gli Atrocity sembrano fare il verso a videogame come Wolfenstein, Metro 2033/Metro Last Light, o magari al sottobosco cinematografico nazidemenziale di pellicole come Dead Snow e Iron Sky), “Okkult II” non ha praticamente nulla che lo differenzi da un qualsiasi album death metal del 2018. Nel decennio corso tra il 1990 ed il 2000 non solo ogni album degli Atrocity suonava diverso da ogni altro loro album, ma era riconoscibile in tutto il panorama metal perché nessuna band assomigliava agli Atrocity. Adesso abbiamo addirittura i dischi seriali, uguali tra loro, con canzoni quasi fotocopia in scaletta e senza nessuna sfumatura di originalità rispetto ai mille competitor che quotidianamente inflazionano il mercato discografico. Chi sono gli Atrocity oggi? Spiace dirlo – ripeto, da fan innamoratissimo – ma sembrano degli uomini di mezza età incapaci di reinventarsi e tenere il passo, e dunque tutti rivolti a ribadire muscolarmente il testosterone che li aveva segnati in gioventù, senza accorgersi che anche in questo caso “tenere il passo” delle nuove leve è una battaglia persa. Picchiano sempre duro, d’accordo, ma vi basta questo? Tutto si riduce a sfondare crani con le mazze chiodate? Pur facendo appello ad i vari se e ma del caso, l’effetto che se ne ricava è simile a quanto accaduto ai Celtic Frost, altra realtà incredibilmente dinamica e sperimentatrice negli anni migliori della propria carriera, che – una volta ritornata in attività dopo le mille diatribe interne – ha sfornato un album, “Monotheist“, certamente interessante e infinitamente superiore a quanto prodotto dai recenti Atrocity, ma comunque del tutto incurante (ed in modo fastidiosamente sprezzante) delle mille anime incarnate dai Frost in precedenza. Come se i vari “Into The Pandemonium“, “Vanity/Nemesis” e persino il bistrattato “Cold Lake” non appartenessero alla loro discografia, e tutte si riducesse a “Into The Crypts Of Rays” e “Circle Of The Tyrants“.

Avevo già subodorato che la situazione stesse prendendo una brutta piega. “Werk 80” parte seconda denotava una pigrizia fino a quel momento mai appartenuta agli Atrocity. I dissidi con Liv Kristine, la standardizzazione anche del progetto Leaves’ Eyes (giochino parallelo di Krull e Bauer), il ricorso sempre più massiccio a coralità e sinfonismi barocchi (a coprire il vuoto di idee e la pochezza dei contenuti), l’incancrenimento su velocità, violenza ed un sound sempre più macho, oramai ridottosi ad una sfilata di bodybuilder autocompiaciuti anziché di canzoni in grado di stimolare l’interesse di un ascoltatore esigente (perché tale era stato abituato ad essere l’ascoltatore degli Atrocity), tutto sta decretando l’avviarsi inesorabile al mesto tramonto di una realtà che, a parere di chi scrive, è stata tra le più fulgide e sottovalutate del panorama metal europeo, degnamente al pari di essere ricordata (per i suoi episodi migliori) accanto proorio ai citati Celtic Frost ed ai Coroner. La mia recensione del precedente EP “Masters Of Darkness” teneva conto della ridotta scaletta, della professionalità ineccepibile a livello di sound engineering, della eccellente confezione “generale” del prodotto, nonché (e soprattutto direi) della speranza di trovare poi anche qualcos’altro (di più) nell’album completo. Speranza calpestata. Come di consueto, la release offre molteplici formati, tra cui anche un super packaging deluxe comprendente pentole in acciaio inox, materassi in lana merinos e cartoline di lolite gotiche ammiccanti. Se l’integralismo fotonico è l’unica freccia che vi interessa incoccare al vostro arco, fate vobis, “Okkult II” è lì che vi aspetta. Al contrario, se ancora oggi album come “Todessehnsucht” o “Blut” vi fanno battere il cuore, vi sembrano incredibilmente freschi, diversi, innovativi, fuori dal proprio tempo, beh tornate ad ascoltare quelli e risparmiatevi l’amaro in bocca.

Marco Tripodi

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