Recensione: Old Habits Die Hard

Di Eric Nicodemo - 3 Luglio 2015 - 8:00
Old Habits Die Hard
Band: Dimino
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Dopo James Christian, Michael Sweet, altri singer tentano la strada solista e le loro alterne fortune: poteva mancare all’appello Frank Dimino, storico frontman dei celestiali Angel?

La risposta è ovviamente… un NO a caratteri cubitali. Così, Frank, senza troppo curarsi delle mode imperanti, decide di pubblicare via Frontiers Records il proprio debutto solista, questo “Hold Habits Die Hard”, che vede la collaborazione di una pletora di artisti, quali Oz Fox degli Stryper, Eddie Ojeda direttamente dai Twisted Sister e l’irriducibile Rickey Medlocke, dagli eroi del shouthern rock Blackfoot. Presente anche il commilitone Punky Meadows, compagno di vecchia data del singer nei sopracitati Angel.

Considerate le credenziali e gli ospiti riuniti, il nostro protagonista non poteva che essere fautore di un hard rock spiccio ed enfatico, che si fa un baffo di elucubrazioni e raffinatezze neoclassiche. Prendiamo, per esempio, il coro di “Never Again”: nessun particolare orpello (ad eccezione dell’hammond in sottofondo), stessa strofa ripetuta allo sfinimento e chitarra imbizzarrita, in mezzo e alla fine del brano. Due andamenti (frenetico e cadenzato), un ottimo tiro, per una buona partenza.

Sa far meglio “Rockin In The City”, brano che decolla grazie al coro propulsivo e orecchiabile, merito della voce magniloquente di Dimino, perfettamente acclimatata a vocals paradisiaci e vetuste tastiere. Proprio le tastiere completano il quadro sonoro, donando un retrogusto tutto anni Settanta. Spontanea ed epidermica, svolge ottimamente il proprio lavoro, puntando tutto sul fattore adrenalina.

E parlando di anni Settanta, guarda caso il midtempo “I Can’t Stop Loving You” odora di primordiale musica made in seventies. La chitarra incedente e gli inserti di acustica consegnano un brano discreto, al quale manca la scintilla di un refrain veramente ammaliante. I cori e le atmosfere hard blues non riescono ad aiutare il nostro ex-Angel a spiccare il volo.

The Rains About To Fall” trasuda l’ennesimo hard’n’roll che si aggrappa ad un buon loop chitarristico. Questo e l’esecuzione energica del combo riassumono l’essenza del brano e lo salvano da una struttura essenziale e concentrica (riff-coro-assolo-repeat), con un ritornello onesto e senza troppe pretese, versione “attualizzata” delle canzoni più dirette (“Rock & Rollers”, “Feelin’ Right”) del repertorio di casa Angel.

 

“… Così in cielo, così in terra…”

 

Il cielo ha bisogno della terra e viceversa… questo solo per dire che la vita non è tutta velocità e eccitazione ma servono episodi meno immediati,  per dar voce al lato romantico di ogni rocker. E così “Even Now” sembra gettare la carta del lento acustico, che in realtà si trasforma in una power ballad con refrain robusto, gridato a squarciagola. Ancora un lavoro gradevole che fa perno sull’enfasi del frontman.

L’intenzione, dopotutto, è quella di far risaltare la voce espressiva, idea condivisa dalla plumbea “Tears Will Fall”, che procede a rallentatore quasi ci stessimo trascinando a stento, su una ripida salita. Con la sua atmosfera tesa e sofferente, la song risulta di lenta digestione e si pone in antitesi con i toni più veloci e scanzonati della precedente “Rockin In The City”.

Capito l’antifona, il combo ritorna sui propri passi e per movimentare questo mortorio “Mad As Hell” viene sparata a tutta velocità, facendosi valere più per le raffiche di batteria che per il ritornello anonimo (qui, con un Dimino scontato e monotematico…).

La sensazione di già visto si acuisce con “Sweet Sensation”, che vuole a tutti costi citare Ac/Dc e Foghat, per una mistura vintage, qua e là ravvivata dalle solite coriste. Viene da chiedersi cosa ci faccia la minacciosa sezione centrale in una canzone vecchio stampo come questa, votata all’ortodossia hard rock ed incapace di osare un’ispirata attualizzazione del genere.

Analogo discorso per “Tonights To Night”, che depreda il riff di Jonny B. Goode (ancora?!) e lo getta in un calderone di chitarre che si dimenano e ritmi sincopati, ascoltati fino all’esaurimento nervoso.

La noia incomincia a farsi sentire e confidiamo nel salvataggio in extremis, con l’aiuto di “The Quest” e di “Stones By The River”. La prima potrebbe farcela nell’impresa, grazie al taglio epico e martellante, con un Dimino finalmente eroico. Ma quando sembra che il Nostro abbia ritrovato la retta via, un coro di backings vocals ruba la scena, smorzando l’impatto e deludendo le nostre aspettative di vedere il frontman intonare un magico refrain.

Tuttavia, la vera impresa è rendere una nuova esperienza “Stones By The River”, ballad gradevole, infarcita di voci femminili e cliché di ogni tipo, dal lento fluire country al consueto hammond.

 

Menù del giorno: solo “classici”…

 

Insomma, “Old Habits Die Hard” ha un titolo interlocutorio, che non ammette repliche e incomprensioni: qui si parla di hard rock vecchio stampo, che riporta in auge Kiss e la band madre del singer, gli Angel. Che cosa si può pretendere, dunque, da un album così onesto? Probabilmente una maggiore ispirazione e un po’ meno di routine: il platter parte bene (ormai una costante negli ultimi tempi) per poi attestarsi su brani dal discreto fascino e carenti di idee veramente efficaci, trasmettendo una sensazione gradevole e nulla di più. Sensazione che alla lunga può lasciar spazio alla noia, pena una longevità limitata dell’intero lavoro. Per assurgere ai massimi voti è necessario ben altro: energia e ispirazione in fase di songwriting devono essere equivalenti se non superiori al fattore nostalgia. Impossibile? Andate a chiederlo ai connazionali Trixter

Eric Nicodemo

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