Recensione: Old Mornings Dawn
Quasi sette anni fa due giovani uomini semisconosciuti ai più, ma dalla grande esperienza alle loro spalle, accendevano un magnifico fuoco sulle svettanti montagne austriache. Quel fulgore mai visto prima si chiamava Oath Bound, e fu visto e ammirato da molti in tutta la Terra. I due austriaci, il cui nome passava ormai di bocca in bocca negli antri più appartati di Arda, soddisfatti per il lavoro svolto, si ritirarono e si concessero il meritato riposo. Molto tempo passò in un profondo silenzio e, nonostante il ricordo di quella fiamma brillasse ancora immortale negli occhi di chi aveva avuto la fortuna di ammirarla, le notizie sui due scarseggiavano. Si seppe che avevano cambiato orizzonti, e ci fu chi disperò di rivedere un giorno qualcosa di simile. Anche nei ricordi dei due uomini quel fuoco stava diventando solo un’immagine sbiadita, appartenente ad un passato lontano. Ma un giorno qualcosa di terribile accadde a uno dei due. Il suo cuore fu colpito da un malore. Guardando la Morte negli occhi, l’uomo cercò disperatamente col pensiero una roccia, una certezza alla quale aggrapparsi per non perdersi. E la trovò in quelle fiamme. Fortunatamente si salvò e, mentre recuperava le forze, ebbe il tempo di riflettere sulla sua vita e su quanto gli era successo. Resosi conto dell’immenso ruolo che quel fuoco aveva avuto nella sua esistenza, prese una decisione. Era tempo di riaccenderne le fiamme. Chiamò il suo compagno e, tornati sui monti, sotto le ceneri del passato trovarono ancora braci roventi. Quel fulgore si sarebbe riacceso, e così i cuori di tutti coloro che non l’avevano lasciato spegnere del tutto.
Questa è la genesi – un poco romanzata – di Old Mornings Dawn, settimo album del redivivo e leggendario duo conosciuto come Summoning. Un’uscita che ha la portata del grande evento, data l’affezione che il duo austriaco è riuscita, dal 1995 ad oggi, a suscitare nei suoi fedelissimi fan. L’ultimo album, Oath Bound, era semplicemente stupendo, ma da lì sono passati ben sette anni; com’è invece questo disco? E’ cambiato qualcosa? Valeva la pena attendere così tanto?
Rilassatevi: l’attesa è stata ampiamente ripagata.
Ma il tempo passa e, prima o poi, qualcosa doveva inevitabilmente cambiare. Ciò che risulta lampante fin dalla prima traccia è, innanzitutto, un sound più pulito e meno confuso di quello di Oath Bound, il cui unico difetto evidente era appunto l’eccessivo sovrapporsi di suoni riverberati. Qui, Silenius e Protector dimostrano immediatamente di aver imparato dai propri sbagli e correggono il tiro; il sound si presenta più secco e preciso, merito soprattutto del nuovo tipo di distorsione applicata alle chitarre, che fa sì che esse non invadano più lo spettro degli altri strati sonori.
Il più rilevante cambiamento investe tuttavia non tanto il lato strettamente tecnico del lavoro, quanto piuttosto lo specifico della musica stessa; il lato relativo, cioè, a che cosa dice la musica in sé, e non a come lo dice. E’ risaputo che i Summoning, durante la loro carriera, senza mai tradirsi, hanno sapientemente evoluto il loro suono, spaziando dalle tonalità più black di Minas Morgul fino a quelle synth-based di LMHSYF. Due fattori sono però sempre rimasti indiscutibilmente immutati in ogni album: innanzitutto, la musica creata dalla band ha sempre avuto il grande pregio di essere profondamente evocativa, visiva (mai nome di una band fu più azzeccato di quello del duo austriaco); la seconda specificità è invece sempre stata l’innegabile carattere epico delle immagini evocate. E’ stata questa combinazione ad aver portato il duo austriaco a mettere profonde radici nei cuori dei suoi fan, la devozione dei quali non può essere vantata da molte band. Ora, come si diceva, con Old Mornings Dawn qualcosa in questa formula è cambiato. Perché se è vero che il carattere evocativo/atmosferico è rimasto intatto, lo stesso non si può dire per la seconda caratteristica. Siamo infatti di fronte ad un album nel quale la componente epica è fortemente limitata rispetto ai suoi predecessori e, quando è presente, lo è in modo diverso. La relativa abbondanza di cori non tragga in inganno: OMD è un disco fondamentalmente intimistico, malinconico. Disforico. Sempre indiscutibilmente fantasy, certo. Ma un fantasy dalle tinte chiare, fiabesche. Le tinte cupe di cui i Summoning avevano fino ad ora riempito le loro tele sonore sono state sostituite dal bianco, dal grigio chiaro, dal flebile giallo di un’alba. E non un’alba calda, avvolgente, bensì lontana, proveniente dal passato. Old Mornings Dawn: l’alba di un giorno antico. Il ricordo di un’alba: questo è il colore prevalente del nuovo lavoro dei Summoning.
L’epicità, a onor del vero non del tutto scomparsa (ne è un eccellente esempio la magnifica title-track) segue questa stessa tendenza, perdendo totalmente il carattere bellico ostentato nei lavori precedenti. La Leggenda, di cui Oath Bound ci faceva sentire partecipi o per lo meno diretti spettatori, è ora vista da lontano: siamo nel dominio dei ricordi. La sequenza di immagini – cioè la musica – di OMD è veicolata proprio attraverso questo filtro, il che la rende di meno immediata assimilazione. Di primo acchito l’album pare infatti ostico, sfuggente, finanche insipido; tuttavia, una volta compresa la poetica della distanza che esso incarna, ecco che il disco si schiude meravigliosamente e ci investe di luce. Luce polverosa; luce fredda, ma non per questo meno affascinante. Anzi.
Va inoltre segnalata la presenza di qualche altra innovazione tecnico-sonora che suscita sorpresa, come il violino (naturalmente sintetizzato) che conferisce a Caradhras dei tratti irish; la traccia spicca, tra l’altro, per essere forse la più ispirata ed emotivamente intensa del disco, a pari merito con la stupenda Flammifer e alla già citata title-track. Dal lato opposto va notato pure l’inopportuno pianoforte di Earthshine, che contribuisce a rendere quest’ultima traccia l’episodio forse meno riuscito dell’album; finale che, tra l’altro, delude chi si aspettava un Land of the Dead – parte II, e che chiude invece senza infamia e senza lode l’album. Degna di menzione, infine, l’ottima The Wandering Fire che, con le sue atmosfere sognanti, delizia coloro che avevano particolarmente amato LMHSYF.
I difetti non mancano a Old Mornings Dawn, che si dimostra un po’ meno ispirato dei suoi predecessori e costruito con più mestiere. Qualcuno potrebbe dire che la ‘poetica della distanza’ altro non rappresenta che una sorta di caduta dell’illusione, quasi come se gli stessi Silenius e Protector ‘non ci credessero più’. Noi, pur riconoscendo la legittimità di tale dubbio, non ce la sentiamo di affermare tanto. Certo, l’album non è considerabile all’altezza dei leggendari precedenti, e questo indubbiamente darà pensare ai fan di lunga data, abituati per giunta a dei Summoning stilisticamente piuttosto diversi; ma ciò non toglie che siamo di fronte ad un disco straordinariamente ricco di impressioni, immagini e sonorità notevolissime, complessivamente di qualità di molto superiore alla media. Old Mornings Dawn riesce a stupire, emozionare e far viaggiare l’ascoltatore; esattamente come i Summoning ci hanno abituati, ma con modalità diverse. Così, il titolo stesso dell’album assume una valenza di metafora dell’affascinante commistione di antico e nuovo che caratterizza questo lavoro.
Alla fine, però, ciò che conta è qualcos’altro. Perché, una volta chiuso il booklet, il pensiero che ci rimane è uno solo, ed è accompagnato dagli occhi un po’ umidi e da un ampio sorriso: Sì. Dopo tanti anni, i Summoning ci sono riusciti ancora.
Francesco “Gabba” Gabaglio
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