Recensione: Ominous Doctrines Of The Perpetual Mystical Macrocosm
Gli Inquisition non dovrebbero, ormai, necessitare di alcuna presentazione. Il duo colombiano-americano, nato nel lontano 1988, si è infatti ormai conquistato il favore e il rispetto della scena black metal underground con una serie di album tendenzialmente ottimi. Nel 2002, grazie alla qualità di Invoking The Majestic Throne Of Satan, la band firma un contratto con l’etichetta No Colours Records, per la quale escono i loro album più celebri: Magnificent Glorification of Lucifer (2004) e Nefarious Dismal Orations (2007).
Oggetto della recensione è invece il disco grazie al quale gli Inquisition compiono il «salto» definitivo: non di qualità, che rimane alta come in passato, ma per di notorietà. Ominous Doctrines Of The Perpetual Mystical Macrocosm, uscito per la prima volta nel 2011 per la Hells Headbangers Records, segna infatti il primo grande riscontro a livello di pubblico. Questo garantirà poi alla band un ghiotto contratto con la Season of Mist, che pubblicherà nel 2013 quello che ad oggi è l’ultimo album degli Inquisition in ordine di tempo, Obscure Verses For The Multiverse.
Il passaggio alla Season of Mist e la crescente fama della band hanno però risvolti positivi anche sui vecchi full length, in quanto l’etichetta francese decide quest’anno di ristamparli tutti e cinque con nuovi artwork e con una veste grafica rinnovata. Il lavoro di creazione delle copertine viene affidato ad un abilissimo artista italiano: trattasi di Paolo Girardi, marchigiano dalla cui bottega sono usciti, soprattutto negli ultimi cinque anni, decine di dipinti per altrettanti album (tra i quali ricordiamo quello che forse è il più celebre, The Blessed Curse dei Manilla Road). Il lavoro realizzato per gli Inquisition è senza dubbio uno dei più significativi e noti dell’artista. Nel caso di Ominous Doctrines l’operazione avrebbe forse potuto suscitare un po’ di dispiacere per la perdita del precedente e caratteristico artwork, opera di Antichrist Kramer; se non che la Season of Mist ha pensato di riportarlo all’interno del booklet, accontentando quindi in parte anche i nostalgici.
Le differenze tra la prima e la seconda edizione di Ominous Doctrines si fermano alla sfera esteriore; possiamo quindi parlare di ciò che sta dentro l’album senza operare altre distinzioni. La direzione artistica del disco rimane quella intrapresa anni fa dal duo: l’alternanza tra parti iperveloci e cupi rallentamenti, insieme alla caratteristica e ipnotica voce «da ranocchia» di Dagon, sono ancora una volta tra i punti forti più evidenti degli Inquisition. La opener Astral path to supreme majesties è forse il brano migliore del lotto e dà prova di tutto ciò che la band può regalarci: l’apertura è affidata ad un riffone spaccaossa accompagnato da un drumming intensissimo, che lasciano poi il posto a dissonanze chitarristiche laceranti che sfociano in un memorabile arpeggio, di quelli che ti entrano in testa e ci restano per un bel po’. L’ipnotica Desolate funeral chant brilla invece nella sua rituale lentezza, anch’essa impreziosita da efficaci arpeggi e da un riffing roccioso, mentre Incubus alla batteria si limita a tenere il groove in modo semplice e costante ma efficace. L’alternanza tra parti al fulmicotone e decelerazioni si presenta in modo particolarmente efficace in Command of the dark crown, brano che peraltro si fa notare per il ritmo squadrato degli ottonari gracchiati da Dagon. E proprio il ritmo dei testi, padroneggiato con grande efficacia dal duo anglofono, è una parte fondamentale della formula magica degli Inquisition: ce lo dimostra una traccia come Crepuscular battle hymn, che risulta così marziale (per lo meno fino al coinvolgente finale sincopato di stampo thrash) anche e soprattutto in virtù dei suoi versi, tutti novenari con lo stesso ritmo. Il singolare e apprezzabilissimo risultato è che questi brani sono quasi canticchiabili; e, checché se ne dica, ciò è buona cosa anche nel black metal.
Poco canticchiabili ma altrettanto memorabili sono invece i rallentamenti in Cosmic invocation rites, che sfiorano il doom in modo simile a quanto accade in Upon the fire winged demon, nella quale la semplicità del riff di chitarra ritmica non lascia spazio a banalità, nemmeno mentre fa da sfondo ad un assolo forse non alla sua altezza. Una via di mezzo tra velocità supersoniche e inserti doomeggianti c’è, ed è il mid tempo costituito dalla title track. Il brano tuttavia, dopo l’ottimo e cadenzato riff iniziale, procede in modo un po’ confuso e senza lasciare traccia; per lo meno fino al finale, che riprende quanto già sentito in apertura e chiude il brano in modo circolare. La qualità del disco rimane comunque alta fino al pezzo finale, Across the abyss ancient horns bray, il quale, pur essendo poco originale e forse superfluo, chiude più che dignitosamente un disco composto ed eseguito in modo ottimo.
Per quanto riguarda i suoni, va sottolineato il fatto che la mancanza di un basso (elemento sul quale gli Inquisition hanno basato parte dell’originalità della loro proposta dal 1998 in poi), non pesa più di tanto sull’impasto complessivo: i suoni della chitarra sono ottimizzati e dilatati in tal modo da non lasciare spazi vuoti. Anzi, proprio la qualità e la compressione dei suoni è uno degli elementi che più differenziano Ominous Doctrines dal precedente lavoro, che era ancora caratterizzato da un suono volutamente sporchissimo e troppo sbilanciato sui bassi. In questo lavoro la chitarra è estremamente satura e la voce spicca senza alcuno sforzo su di essa e sulla batteria, la quale invece tende a volte a rimanere soffocata nel mix. Il risultato è forse artificioso e qualcuno potrebbe storcere il naso, ma la verità è che questo nuovo tipo di produzione rende la proposta dei colombiani ancora più gelida e compatta, senza mai sfociare nel fastidioso. Il problema si presenta semmai in sede live, dove i nostri, complice la mancanza di un basso, hanno spesso qualche problema a ricreare lo stesso impatto sonoro che abbiamo imparato ad apprezzare su disco.
Questioni tecniche a parte, una cosa è certa: con Ominous Doctrines Of The Perpetual Mystical Macrocosm gli Inquisition ci hanno regalato un’altra perla. Rispetto ai dischi precedenti la formula adottata è la stessa, con qualche minima variazione e con un suono più compatto e freddo. Non mancano qualche inciampo e qualche passaggio a vuoto ma, anche a quattro anni di distanza dalla sua uscita originaria, Ominous Doctrines rimane un album godibilissimo; non particolarmente innovativo rispetto alle altre fatiche del duo colombiano ma, in virtù dell’ormai collaudato e particolarissimo sound, ancora originale e immediatamente identificabile nel panorama black metal odierno.
Francesco “Gabba” Gabaglio