Recensione: On A Dark And Stormy Night

Di Roberto Gelmi - 15 Giugno 2014 - 12:39
On A Dark And Stormy Night
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Anno: 2012
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87

 

You’re given the form,
but you have to write the sonnet yourself.
What you say is completely up to you.

(Madeleine L’Engle – A Wrinkle In Time)

 

Per tutti i cultori del neo-progressive suonato con dedizione e indubbio talento, il terzo studio album (dopo Welcome to the Freakroom del 2006 e Whispers and Screams uscito nel 2009) degli statunitensi Shadow Circus si è rivelato un cameo di valore assoluto, che ha consacrato il quintetto a stelle e strisce nel novero delle band note a pochi, ma imprescindibili.
È tutto presente già nell’artwork, sintesi perfetta del sound magnificente e bombastico del combo americano (che ha affinato le proprie capacità in fase d’arrangiamento), con fulmini in un cielo animato da due occhi iniettati di sangue, che campaeggiano al di sopra di un tendone da circo, onde spicca il volo un centauro lungocrinito e stranamente alato.
L’album è, altresì, un concept, ispirato al romanzo fantascientifico per ragazzi A Wrinkle In Time (Nelle pieghe del tempo, 1962), di Madeleine L’Engle, libro molto popolare in ambito anglosassone (e da cui è stato tratto anche un film della Disney), nel cinquantesimo anniversario di pubblicazione. Si tratta di una viaggio ai limiti dell’universo che vede la protagonista alla ricerca del padre scienziato scomparso durante uno dei suoi misteriosi esperimenti. Una quête che prevede numerosi  colpi di scena e si presta, dunque, a una reinterpretazione proggish.

On a dark and stormy night (notare il titolo stereotipato degno dei Mechanical Poet) si apre ekphasticamente, con pioggia scrosciante, tuoni, un mesto violoncello e un organo: pare di essere in un platter di Pär Lindh, ma con una maggior propensione cinematografica e ludica. La lunga “Overture” a ogni cambio di atmosfera spiazza, e al contempo stupisce, l’ascoltatore, incarnando la più pura definizione di progressive. All’inizio del terzo minuto entrano le chitarre, il basso e la batteria, con risultati vicini a gruppi come Arena, IQ, Jadis, Everon, ma non manca una certa attitudine rushiana nei riff ed echi Seventies nell’uso di un hammond sapido. Prog. rock, in definitiva, contaminato da un riffing robusto, non manco di spunti aggressivi quasi metal. Al min. 4:31 un synth porta allegria contagiosa, quando in realtà a meravigliare è l’intero ventaglio tastieristico, che rivela un’inventiva stupefacente e il tanto lavoro in fase di composizione. Nel finale spazio alle chitarre e rullate pirotecniche di batteria. Tra cadenze alla Spock’s Beard, ripartenze e momentanee parentesi distensive, l’opener strumentale è un capolavoro neoprog. che incanta ancora dopo innumerevoli ascolti.
Daddy’s Gone” parte fatata con un synth di scuola Camel, pianoforte e chitarra acustica. David Bobick fa la sua prima apparizione (nel resto del platter comparirà poco) e il tono caldo e melodico della sua voce si sposa alla perfezione alle dinamiche soffuse iniziali del brano. Nel prosieguo fa da padrone un sintetizzatore crimsoniano (quello che ha reso immortale “The Court Ot The Crimson King” per intenderci), laddove, sulle tonalità più alte, Bobick suona più nasale/clownish che mai (ma senza raggiungere gli apici di Nad Sylvan degli Agent of Mercy)  La presenza di campane e di un assolo chitarristico di tutto rispetto ricordano, altresì, i The Flower Kings.
Finale circolare e poi inizio “sommerso” à la Yes per “Whosit, Whatsit And Which”. Tempi composti e scherzosi, delay e cenni funky per una delle hit dell’album, una vera delizia. L’assolo alla fine del quinto minuto è stellare, così la breve parte strumentale sincopata che segue. Le linee vocali sono istrioniche e nelle armonizzazioni emerge il tributo che gli Shadow Circus devono anche ai Transatlantic di Portnoy & Co.
Ottimo incipit di pianoforte per “Make Way For The Big Show”, cui seguono accordi melodrammatici (che possono ricordare la coda di “A Vampyre’s View” della main-band di Ronine Stolt). Sentori di The Tangent, ancora King Crimson e buone linee di basso; i synth sono quelli prediletti dagli Ayreon e gl’intrecci sonori, guarda caso, sono da vero space metal. La traccia si dipana lungo quasi nove minuti, sussiste tuttavia un nucleo di forma canzone e le continue digressioni rendono il brano godibile, così sospeso com’è tra grande tecnica e inventiva infinita.
In scaletta è la volta del brano killer “Tesseract”, oggetto magico/avveniristico fulcro dei viaggi temporali nella narrazione di fantascienza (oltre che nome di una delle band djent metal più quotate del momento). Si tratta di una strumentale che trasuda un’epicità multisfaccetata, come a mimare le trentadue facce dell’ipercubo da cui il titolo. Tanti gli echi rushiani, tra accordi corposi e un drumwork letale, che non teme confronti con i maestri Dream Theater.
Uriel” mantiene il disco su livelli qualitativi eccezionali, dimostrandosi un mid-tempo godibilissimo dalle tinte artiche e con un crescendo, a metà brano, paragonabile a una fioritura fuori stagione che trasmette sicura positività. Ancora una volta sono le tastiere a ritagliarsi il ruolo di protagoniste, ma anche basso e chitarra non sono da meno, con qualche virtuosismo d’applausi.
Camazotz” (nome del luogo di fantasia dove si svolge parte del romanzo) incede da primo su lidi oscuri; dopo i primi sessanta secondi l’andamento si fa robotico, con voci filtrate e hi-hat. Gli Shadow Circus si dimostrano eclettici e propongono un lato del proprio sound più catchy e floydiano. Un buon break di basso all’inizio del quinto minuto e poi un finale con scale “transatlantiche” (chi ha detto “Full Moon Rising”?) e sonorità tiratissime quasi à la Porcupine Tree.
Si rifiata con la seguente “Ixchel”, con chitarre acustiche, tinte crepuscolari (quelle messe in campo dai Dream Theater in “Trial of Tears” per intenderci), gocce di pianoforte e vocalizzi femminili. Come valore aggiunto al brano, si respira anche aria di prog. italiano.
Intro a dir poco irritante per la conclusiva “The Battle For Charles Wallace”, poi subentrano ritmiche pesanti (i Camel di “Lady Fantasy” restano seminali) e un crescendo ossessionante lascia spazio a campane ed effetti pseudo-fantasmatici. Un misto di The Tangent e hard rock, per uno dei pezzi più cattivo del platter, con tanto di palm-mute e accavallamenti vocali più che originali. Il finale di disco è, comunque, pomposo con tremolo di chitarra e delay, in modo da confermare l’identità sonora della band e dare coesione all’intero full-length.

Dopo una prima fase di rodaggio il Circo dell’Ombra è riuscito a fondere influenze che vanno dagli Yes allo space metal, realizzando un album che definire ben composto sarebbe riduttivo. La tecnica non prevale sull’inventiva, le sezioni strumentali sono le vere protagoniste e il concept dipinge una fantascienza sui generis al limite del fantasy. Se fare prog. significa lambire lidi d’insana ludicità circense, il combo statunitense si è avvicinato al capolavoro. In futuro, correggendo di poco il tiro (penso al trattamento delle linee vocali) potremmo essere di nuovo qui a elogiare l’ennesimo disco targato Shadow Circus.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamantyhs)

 

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