Recensione: On Lonely Towers

Di Gianluca Fontanesi - 28 Aprile 2015 - 1:18
On Lonely Towers
Band: Barren Earth
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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83

Un cacciatore braccato e mutilato da predatori, una bambina che fugge dai suoi genitori violenti, l’incontro fra i due in un vasto campo in cui vi sono enormi torri in totale decadimento; la bambina promette di aiutare il cacciatore come può.. Non sveliamo altro, è giusto lasciare un po’ di mistero; il nuovo nato in casa Barren Earth narra questa storia e tante altre, ruota attorno al concetto di accettazione della mortalità col solito melodic death-doom di qualità altissima e mai banale. La prima cosa che salta all’occhio, anzi, all’orecchio, è l’assenza del buon Mikko degli Swallow The Sun, sostituito dall’altrettanto ottimo Jón Aldará dei faroesi  Hamferð; le differenze  si notano in particolar modo nell’uso delle clean vocals, in quest’opera più presenti e marcate, mentre l’uso e la timbrica del growl rimangono molto simili e ben dosati.

La prova del terzo disco in genere significa consacrazione, a volte anche capolavoro; i Barren Earth si confermano una band in splendida forma, in grado di regalare emozioni e canzoni sincere nonostante i cosiddetti super gruppi (i BE sono formati da membri o ex membri di Amorphis, Kreator, Turisas, Moonsorrow ecc..) non siano spesso forieri di grande musica ma di grande business. On Lonely Towers è un disco ottimo, di un ottimo ibrido fa Amorphis, death/doom nella sua accezione più melodica e fortissimi inserti settantiani sia in fase sia solistica che di riffing. Il sound non si discosta poi molto da quello degli album precedenti; matura e prende direzioni verso un songwriting più stratificato, coerente e massiccio. Le composizioni sono oscure, intricate al punto giusto e ben bilanciate tra melodia e parti prettamente death. Si assestano tutte tra i cinque e gli undici minuti di durata e hanno il raro pregio di non annoiare mai l’ascoltatore, anzi, lo incuriosiscono e lo trasportano in scioltezza nella dimensione della band che, diciamocela in tutta franchezza, colma il vuoto lasciato dagli Opeth due dischi orsono.  Qui non c’è revival né alcun sogno di un Woodstock di mezza estate; c’è grande musica che attende solo di essere scoperta.

I detrattori potrebbero pensare all’intro come una scimmiottata a un noto pezzo degli 883; noi ci limitiamo a sottolinearne la brevità e il buon tema di pianoforte che trasporta l’ascoltatore nel mood del disco, che si sprigiona molto presto con Howl e il suo riff portante 100% Amorphis assieme alla successiva strofa. Di facile presa e orecchiabilissimo il ritornello, lo si canticchia più o meno al primo ascolto e risulta ottimo soprattutto in fase di sovraincisione. Azzeccato il bridge che si sposta sul doom puro accompagnato dal growl del buon Jón, perennemente a suo agio in ogni situazione; il crescendo in doppia cassa sfocia in un inaspettato death old school, quello fatto da tremolo picking e note dissonanti concatenate semitono su semitono. L’entrata dell’assolo è totalmente alla Gilmour e il ritornello torna a fare capolino in chiusura del pezzo. Chapeau. 
Frozen Processions inizia col pianoforte accompagnato dai piatti; dopo una breve intro ecco servita una strofa totalmente in clean davvero azzeccatissima assieme al successivo ritornello; qui si mantiene la forma canzone più classica senza dilatarla più di tanto e il risultato paga, specialmente se teniamo conto che la band in questa dimensione semplicistica e scheletrica non ci rimane per praticamente tutto il resto dell’album. A Shapeless Derelict sfoggia un’intro ad opera di strumenti ad arco che, ad essere onesti, dura troppo poco; ci si risolleva comunque subito in favore di un mood doom molto potente e oscuro. La strofa in clean è calda e avvolgente e si alterna a inserti growl in cui il pezzo sale e scende d’intensità in maniera magistrale e con gran classe. Il bridge accelera leggermente e poi massacra con una fase death decisamente letale. 

“Be all, end all!”

Si continua poi raggiungendo il parossismo con stralci di puro prog e regalando uno dei momenti migliori dell’intero album.  Set Alight sottolinea ancora una volta l’egregio lavoro di Kasper al piano-tastiera  e ne prende totalmente ispirazione; viene lasciato ancora molto spazio alle clean vocals e al loro alternarsi col growl, qui relegato (giustamente) in secondo piano.  Il ponte è un’apertura magnifica ed esaltante, in cui tutti i musicisti godono di un perenne stato di grazia e ispirazione, provare per credere. La ripresa dei temi portanti è poi dovuta, necessaria, e conclude un altro highlight. 

La titletrack è la canzone che ispirò Travis Smith per il concepimento dell’artwork, davvero splendido se osservato nella sua interezza. Il pezzo è lungo, lento, oscuro ma sognante; potrebbe anche essere la colonna sonora ideale per vagare nelle lande di Shadow Of The Colossus. Ci si assesta in un doom con matrice fortemente progressiva e la resa è spettacolare oltre che di una profondità invidiabile; è sicuramente il brano più “sentito” e quello che rappresenta in toto l’album, dodici minuti di pura libidine.
Chaos, The Songs Within gode di un buonissimo incipit pregno di armonizzazioni chitarristiche che presto sfociano in un death melodico di matrice piuttosto classica; è il primo pezzo che si può definire qualitativamente inferiore rispetto a quelli precedenti e leggermente impersonale. Risulta buono ma non eccellente e non particolarmente riuscito; migliora nella seconda parte ma di poco.
Sirens Of Oblivion è la bonus track presente solo nell’edizione digipack dell’album ed è posta in pre conclusione; è l’unico pezzo il cui testo è stato scritto da Janne invece che Jón  e si rivela superiore di parecchie spanne rispetto al precedente, complici trombe, trombette, passaggi jazzati a raffica e chi più ne ha più ne metta. Risulta inspiegabile la scelta di non includerla in maniera definitiva nella tracklist.
The Vault ha il compito di porre fine a questo splendido disco; tornano gli strumenti a fiato e l’incedere si assesta su un inevitabile lentaccio, che mai male non fa. Come conclusione si rivela azzeccatissima, distaccata ma non troppo dal resto dell’album col suo feeling più positivo e intimista, che letteralmente impazzisce a metà del minuto tre per diventare un enorme concentrato di psichedelia fino al minuto otto. Viene poi ripreso il tema portante e l’opera si compie niel migliore dei modi, lasciando solo una gran voglia di premere il tasto play ancora una volta.

On Lonely Towers è un disco magnifico e probabilmente il migliore dei Barren Earth; ogni canzone (tranne una un pelino sotto) raggiunge livelli eccellenti e ha una propria personalità. Complici becere operazione di marketing, ha il difetto di uscire in primavera quando richiederebbe gelo, nebbia e bufere assortite; ci accontentiamo pensando che sicuramente a dicembre usciranno i Trollfest.
L’unica nota dolente in tutto questo ben di Dio è la scomoda pratica dell’arrivare dopo, che nel metal in generale conta, e soprattutto deprezza più del  dovuto: “Gli Opeth l’hanno fatto prima, gli Amorphis idem, negli anni ’80 c’era di meglio, negli anni ’70 idem e bla bla bla”, fino a tirare fuori il nome della bisnonna di Dan Swano (che l’ha probabilmente fatto ancora prima degli Opeth stessi) solo per far vedere di essere fighi. Ciò che rimane dopo le minchiate è questo gran disco, fatelo vostro senza supposizioni inutili, non ve ne pentirete.

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