Recensione: On Strange Loops
I Mithras del Warwickshire, England, vanno a rinverdire la schiera di metal band (perlopiù di estrazione estrema) affascinate dai misteri cosmici, dai viaggi interstellari, dalle galassie spaziali e dagli enigmi celati dalle mute e remote profondità dell’universo. Un tempo c’erano il Capitano Kirk e l’Enterprise, i Pestilence, i Nocturnus, i D.B.C., gli Obliveon e i Voivod, oggi perlomeno i Voivod sono sopravvissuti (lo status dei Pestilence non è chiarissimo), le nuove leve si chiamano Vektor, Contrarian, Obsidian, Progenie Terrestre Pura e il capitano Kirk è ringiovanito, e anziché le fattezze di William Shatner ha quelle molto più mache di Chris Pine.
I Mithras – che sono al quarto album, che esistono suppergiù dal 2000 e che fondamentalmente sono Leon Macey (polistrumentista factotum) con il concorso esterno di Rayner Cross (già però fuori dalla band) – hanno la loro specificità e si inseriscono con maestria ed autorità nel filone delle indagini meta-filosofico-spaziali. “On Strange Loops” si apre con la più esistenziale ed escatologica delle domande, “Why Do We Live?“, e il duo prova anche a dare delle risposte al riguardo. Il pezzo è clamorosamente bello, perfetto per battezzare un viaggio così ardito e incognito come quello attraverso le sfere celesti. Una sorta di limbo musicale, ieratico e minaccioso, che ci spinge ad interrogarci su quale (brutta) fine faremo una volta che saremo completamente inghiottiti dal nero del cosmo, con la Terra oramai irrimediabilmente alle spalle.
L’album però poi procede in modo assai più feroce e violento, dispensando tracce furenti e indiavolate, perlopiù poggiate su blastbeat soffocanti e inestricabili, nonché su linee di doppia cassa dove i pedali stantuffano pressoché all’unisono. Ci sono momenti di apertura e a parer mio sono le parentesi più pregevoli dell’album, poiché fanno vivere e respirare le magnifiche atmosfere che i Mithras sanno erigere e che altrimenti rimarrebbero del tutto intrappolate dai buchi neri che scandiscono il viaggio della nostra astronave. “Odyssey’s End” è un altro di questi interessanti esempi. Così come ogni assolo sull’album merita il suo cono di luce ed attenzione. Tecnicamente il lavoro svolto è ineccepibile, si trae gran godimento dal potenziale esecutivo dei britannici e però, anche per questo, infondere un maggior dinamismo alla tracklist non avrebbe fatto che elevare ad ennesima potenza un disco per certi versi totalizzante come “On Strange Loops“.
Molto attento il lavoro di produzione, che conferisce in particolar modo alle chitarre un sound straniante, liquido, fatto di effetti, riverberi e delay, aloni ed impulsi che si dipanano da ammasso stellare ad ammasso stellare, e che arrivano a noi come captati da gigantesche antenne rivolte verso cieli sterminati. I Mithras hanno lavorato sapientemente su come dovesse suonare il loro album, hanno donato sfumature e profondità di espressione al songwriting, non mirando esclusivamente a deflagrare tutto bensì andando in cerca di paesaggi e spettri sonori che dessero sostanza ed un sapore di autentica esplorazione ad un ipotetico equipaggio formato da elementi dei Morbid Angel e dei Pestilence (post anni ’80), vestiti da cosmonauti e con lo sguardo oramai del tutto alienato da mirabili visioni di oltremondi lontani anni luce.
Marco Tripodi