Recensione: On The Warpath
Daniele “Bud” Ancillotti, autentica leggenda dell’heavy metal tricolore, dopo la scomparsa dei livornesi Fabio e Roberto Cappanera e lo scioglimento della Strana Officina (loro ex band), riparte da capo con un nuovo gruppo, i Bud Tribe, insieme all’ex Strana Officina Marcello Masi, ai due ex Sabotage Dario Caroli e Leo Milani e al fratello Sandro “Bid” Ancillotti, e nel 1998, dopo l’uscita di un ep, vede la luce il loro debutto, questo “On The Warpath”, anche loro unica fatica, al momento.
Il genere proposto dai nostri è un heavy metal rock (tanto per citare la Strana..) che segue la scia dei vari Iron Maiden, Black Sabbath (specialmente dell’era Tony Martin) con venature doom, e prende spunto anche dagli episodi più melodici della Strana Officina (pezzi come Unknown Soldier, The Ritual e Falling Star sono delle autentiche miniere d’oro per Bud e soci), il tutto condito con un tocco estremamente personale, impreziosito dalla calda e avvolgente voce di Bud, e dal talento compositivo della coppia d’asce Milani – Masi, i quali non ci fanno rimpiangere Cappanera. A questo si affianca una linea ritmica di tutto rispetto, con tappeti di basso che niente hanno da invidiare al maestro Geezer Butler.
Il disco parte subito forte con Black Widow (spesso opener dei concerti), un hard rock scoppiettante in pieno stile ottantiano, che mette subito in evidenza lo stile della band e le caratteristiche dei singoli musicisti (bellissimi gli assoli presenti), insomma si capisce subito che questi non scherzano. Segue Son of Sam, il cui inizio ricorda maledettamente The Prisoner dei Maiden (che verrà poi ripreso alla fine), per poi trasformarsi in una speed song coi fiocchi, e nella seconda parte acquista un taglio cupo ed oscuro che ricorda vagamente i vari Candlemass e Memento Mori, il tutto a ritmi decisamente sostenuti. La terza song, Dark Knight (Long Time Ago) è forse la migliore del lotto: viene introdotta da un arpeggio di chitarra decisamente malinconico, a cui si sovrappone poi la voce del Bud, anch’essa pregna di sentimento ed espressività, e dopo 2 minuti di intro esplode in tutta la sua carica, con delle linee melodiche e degli arrangiamenti da far invidia al Tony Iommi dei bei tempi andati, e un chorus che entra in testa dopo il primo ascolto. Tanto di cappello davvero. Maybe Tomorrow, la canzone successiva, presenta una struttura decisamente più metallica, con un riffone portante monolitico e di grande impatto; il chorus ricalca i canoni del disco, ossia melodia e grande sentimento. Un arpeggio e un tappeto di tastiera quasi da “love song” ci introducono Keep Rockin’ On, che dopo quest’intro diciamo insolita, evolve in una rock song vagamente melanconica, con degli inserti che ricordano a tratti gli u2 dei tempi d’oro (chiaramente gli arrangiamenti sono completamente diversi). Con Rock’n’Roll Tribe sterziamo verso un suono dedito all’hard rock più sanguigno, e i nostri dimostrano di aver imparato la lezione dei colleghi ac/dc, rose tattoo e compagnia bella, e ci regalano un rock anthem con un chorus da cantare in coro col pugno alzato, e degli assoli che sembrano scritti da Angus Young: se questo pezzo venisse incluso in una compilation degli ac/dc, veramente pochi si accorgerebbero della differenza. Miss Treason, invece, sembra uno scarto delle sessioni di Paranoid: il suono adesso ricalca l’heavy rock doomeggiante dei primissimi Sabbath, con Bud che si cala perfettamente nei panni del “madman” della situazione. Siamo arrivati ad Angel, il colpo di coda del disco, una sfuriata metallica d’altri tempi in cui Bud e compagni giocano a fare i Judas Priest ma rimanendo ben saldi ai loro canoni: ditemi cosa c’è di meglio! Si chiudono i lavori con l’immancabile ballad, Wounded Knee, in cui la band dà dimostrazione di possedere una notevole classe, oltre che un’attitudine hard’n’heavy che ormai purtroppo è di scarsa reperibilità. L’interpretazione vocale di Bud, così come in tutto il disco, è semplicemente magistrale: non credo di esagerare, se dico che ci troviamo davanti al miglior singer hm italiano mai esistito.
In definitiva, abbiamo fra le mani una vera gemma di heavy metal di stampo italico, una delle ultime testimonianze di questo genere che ormai è ben lontano dai fasti vissuti negli anni 80, che la Tribe non ha dimenticato e che ha trasposto su questo platter che meriterebbe di godere di una fama ben più ampia, così come la band che lo ha partorito.