Recensione: On your Feet or On your Knees
Dopo una serie di lavori in studio che se visti oggi fanno gridare quasi al miracolo, ma che non furono ai tempi (e forse neppure oggi) capiti appieno, nel 1975 i Blue Oyster Cult provano a regalarci un’ulteriore testimonianza della loro classe, bravura, genialità e potenza di innovazione con un minuzioso resoconto delle loro prestazioni dal vivo, testimonianza che viene racchiusa in questo doppio live “On your Feet or on Your Knees”. Il materiale che contiene questo splendido live (ovviamente splendido, stiamo pur sempre parlando di una band che, per quanto oscura e misteriosa fosse, appartenente agli anni settanta, e dunque molto avvezza a dare il meglio di sé dal vivo), dicevo il materiale contenuto in questo doppio è veramente ricco (anche di significati), non resta che sviscerarlo. Possiamo iniziare dicendo che il prodotto è forse la sublimazione, nonché l’atto conclusivo, della parte di carriera più ombrosa ma probabilmente anche più grande della carriera anche compositiva dei cultisti, ne sono chiara testimonianza gli album successivi a questo (partendo da “Agents of Fortune”, venuto l’anno dopo), che abbandoneranno in buona parte i temi stralunati e paranormali tipi dei primi B.O.C. per continuare forse si con temi stralunati, ma accompagnati da melodie decisamente più orecchiabili e leggere (con alcune, ma poche, eccezioni). La scaletta (12 pezzi nel complesso, magari un paio in più non avrebbero guastato) è stata ben congegnata, contenendo tanti cavalli di battaglia e forse anche brani un po’ meno attesi, ma non manca di novità, come sono testimonianza anche una cover, quale la conclusiva e azzeccatissima “Born to be Wild”, e la splendida strumentale “Buck’s Boogie”, che analizzerò fra poco in dettaglio. Degna di nota anche la produzione, che permette un sound dotato di una potenza davvero notevole, senza dubbio superiore a quella di tantissime opere contemporanee, fattore che incrementa le tesi di chi vuole i Blue Oyster Cult fra i primi pionieri non tanto dell’hard rock quanto dell’ancora semisconosciuto ed embrionale (Black Sabbath e pochissimi altri a parte) fenomeno Heavy Metal (anche se io personalmente dissento da questa affermazione). Parlato di scalette, di produzione e di quant’altro che dire delle singole prestazioni e del feeling che i nostri riescono a creare sul palco? Beh, il punto esclamativo è d’obbligo in entrambi i casi. Tutti i brani sono eseguiti senza mezzi termini a regola d’arte, sono lunghi e non identici alle versioni in studio (in alcuni casi sono allungati, molto spesso dotati di improvvisazioni, e così via), e a mio avviso sono più orecchiabili delle stesse studio version, grazie a una migliore scorrevolezza, non so come spiegarlo bene. Non voglio fare una graduatoria di brani preferiti, perché il live va preso in tutt’uno, ma credo che siano da citare, quanto a bellezza dal vivo, le monolitiche “Subhuman”, da sempre grande apertura, la dolcissima “Last Days of May” (molto più coinvolgente della già stupenda studio version), le giocose “Hot Rails to Hell” e “Before the Kiss (a Redcap” (qualcuno qui potrà obiettare ma secondo me sono eccellenti per spezzare la tensione senza aver cadute di tono) e il grandioso doppio assolo “Buck’s Boogie”, dove Lanier e Dharma si completano in un tutt’uno da mozzare il fiato. Proprio questo duo mi dà lo spunto per passare a parlare delle prestazioni dei singoli. Tutte queste sono praticamente perfette, cominciamo quindi a elogiare il “principe” del live, ovvero il già nominato Buck Dharma Roeser. La grandezza della sua 6 corde (che lo stava pian piano affermando nei circoli degli addetti ai lavori) è una costante per tutti i 76 minuti abbondanti di musica, spaziando e variando toni, tecnica, appeal e atmosfere, a seconda della voglia del chitarrista, che guadagna dunque la palma di migliore in campo. Poco sotto metto il duo Eric Bloom/Allen Lanier. Se il primo si esibisce bene, senza eccedere in chissà quali manierismi, ma rimanendo preciso e costante lungo tutto l’arco del live (e dimostrando di saperci fare anche dal vivo e non solo in uno studio di registrazione), il tastierista in alcune parti fa la figura della comparsa (non certo in senso tecnico, bensì designando il ruolo di protagonista di turno ad altri), per poi magari prendere di forza bruta il possesso della scena, con assoli preziosi, funambolici e da lasciare a bocca aperta (vedi quello di accompagnamento alla già citata Buck’s Boogie, un duo chitarra tastiera che rende questo pezzo tra i migliori 3 o 4 di tutto il live). Buono anche il resto della band, nessuno fa errori di sorta, ma reputo i 3 citati al di sopra delle righe. Questione feeling : Mah.. Io ho sempre reputato l’apporto del pubblico, quanto esso si senta coinvolto e coinvolga allo stesso tempo, una delle cose fondamentali di un buon prodotto dal vivo. Forse qui devo tuttavia ricredermi parzialmente delle mie convinzioni. Infatti, seppur si senta che è un live, l’apporto degli spettatori del pubblico è pari quasi allo zero. Salvo qualche applauso, urlo, qualche piccola incitazione e pochissima interazione (il tutto concentrato specialmente all’inizio) nulla abbiamo. Ma…. lo so sembra assurdo dirlo, questa volta è forse meglio così, perché ingigantisce ancora di più la prestazione del live stesso, talmente carico di atmosfera che forse un pubblico urlante avrebbe addirittura rovinato (e chi mi conosce sa che dicendo questo faccio violenza a me stesso). Non so, forse è perché la gente fa esattamente ciò che ho fatto io la prima volta che ho sentito il disco, fa quello che ho visto fare agli spettatori quando ho intravisto, non troppo tempo fa, i Blue Oyster dal vivo, ovvero fa silenzio, silenzio magico però, che è parte integrante dell’atmosfera e della tensione ai massimi livelli che regna imperitura. Quindi che aggiungere…probabilmente questo non è il mio live preferito in assoluto, forse non è neppure nei primi 5, è senza dubbio uno di quelli che però mi lascia più affascinato, nella miriade di grandiosi live che popolano il decennio magico dell’Hard Rock. Mi sento quindi di consigliarlo, oltre al valore storico indiscutibile, anche perché dà una lezione di un particolare stile, da non sottovalutare affatto.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) The Subhuman
2) Harvester of Eyes
3) Hot Rails to Hell
4) The Red & the Black
5) Seven Screaming Dizbusters
6) Buck’s Boogie
7) Last days of May
8) Cities on Flame
9) Me 262
10) Before the Kiss (a redcap)
11) Maserati GT (I Ain’t Got You)
12) Born to be wild