Recensione: One
Negli ultimi anni, ciò che viene accostato alla Cina è un massivo sviluppo dell’economia e del mercato ad essa strettamente legato. Addentrandoci più a fondo, però, possiamo notare come molteplici altri aspetti, tra i quali sicuramente quelli culturali, stanno prendendo piede a tutta velocità divulgandosi sorprendentemente anche oltre oceano. A tal proposito vi sarà sicuramente capitato di captare, via radio o tramite i canali tv, note di nuove canzoni asiatiche, di svariati generi e agghindate da video oltremodo variopinti e sgargianti, un po’ come i look degli stessi componenti delle band; ma cosa accadrebbe se questa moda si diffondesse anche nel nostro amato metal? Gli appassionati e i cosiddetti “True” sarebbero pronti ad affrontare una simile novità, o credete che ne verrebbero nauseati come l’ultimo bicchiere alla festa di Capodanno?
Con questa recensione spero di fare luce su questo fenomeno, con una band emergente che, già a partire dalla copertina, abbaglia e sembra quasi splendere di luce propria. Ma partiamo dal principio. Anno domini 2022. Nel panorama metal, uno dei sottogeneri che più si sta evolvendo, raccogliendo così un numero sempre maggiore di fan, è sicuramente il progressive, ricco di sfaccettature e variazioni che stuzzicano ogni volta anche i padiglioni auricolari più fini ed esigenti; in questo calderone è impossibile tralasciare nomi come quello di Devin Townsend o Dream Theater, noti per aver donato al pubblico veri e propri capolavori. Partendo da tali presupposti ne consegue che la scoperta di nuove e succulente prelibatezze sia per ogni assiduo audiofilo una routine inderogabile ed è in questa scia di entusiastica ricerca che gli OU, direttamente da Pechino, traggono linfa energetica da infondere nella propria musica.
Nato da un progetto del batterista Anthony Vanacore, il quartetto mette in chiaro fin da subito l’intenzione di distinguersi tra le bestie sacre del prog, facendosi notare per quelle che, dai primi minuti di ascolto, echeggiano come note leggiadre e pure, ma allo stesso tempo decise e tenaci, come la voce della fantastica cantante Lynn Wu, scelta tra molti pretendenti a un ruolo che spesso, nel metal, crea lo spartiacque tra accaniti entusiasmi o cocenti delusioni. Dulcis in fundo, ma non certo per importanza, sono le linee strumentali che, durante tutto il disco, trascinano l’ascoltatore in ambienti alieni, quasi inimmaginabili, dando spesso la sensazione di non avere più i piedi sul suolo terrestre: la chitarra di Zhang Jing viaggia su binari stranianti, ma mai eccessivamente complessi, mantenendo sempre quella delicatezza caratteristica dell’opera tutta, sorretto da una poderosa e compatta linea di basso con quattro, ed è veramente il caso di dirlo, begli attributi propri del grande Chris Cui.
La band ha dunque chiaro il proprio obbiettivo: presentarsi al mondo come una nuova creatura distinta e indipendente da qualsiasi affiancamento alle vecchie glorie che ancora spadroneggiano in lungo e largo tra palchi e fan sfegatati. Materiale alla mano e una etichetta di livello assoluto come la InsideOut Music a dare manforte, queste quattro nuove promesse sono pronte a presentare il loro primo lavoro completo e, credetemi, per quanto mi riguarda è stato una meravigliosa scoperta. Signori e signore vi presento One.
Si parte subito in pompa magna con un pezzo entusiasmante e ricco di adrenalina: “Travel” ci trascina senza preavviso in un viaggio di ben 5:54, in un luogo che, tra suoni spaziali e allucinanti, sembra adatto ad un film di Steven Spielberg. Ogni strumento fa la sua parte in modo ineccepibile, prendendoci per mano e portandoci tra sentieri inesplorati e misteriosi, senza sapere cosa ci attende; la voce melodiosa e spesso aggressiva di Lynn è l’unica certezza alla quale possiamo aggrapparci per sperare, alla fine del nostro viaggio, di uscire sani e salvi, seppur increduli, dal profondo spazio sconosciuto. Si prosegue con la seconda traccia, “Farewell”, dove per la prima volta si possono distinguere note djent, suonate col giusto savoir-faire. Anche in questo caso l’atmosfera è spaziale e aliena, arricchita da linee vocali di una purezza quasi impalpabile: è incredibile notare come la differente lingua adoperata nei testi non influenzi affatto la facilità di approccio alle linee vocali, che riescono a ogni nota, in modo naturale e per niente faticoso, ad affascinare e far immergere nell’ascolto.
Terminati questi entusiasmanti minuti di pura enfasi musicale, siamo di nuovo catapultati di fronte a una montagna di potenza uditiva, laddove “Mountain” sembra volerci sbarrare il cammino, fiero ostacolo di poderoso djent/prog metal: sin dai primi secondi d’ascolto, possiamo immaginare qualcosa di mastodontico pararsi dinnanzi a noi, tra note massicce di chitarra, partiture di batteria che non perdono mai un colpo e, che ve lo dico a fare, la solita presenza costante che ci accompagna passo dopo passo, eterea e incantatrice, della nostra musa orientale. Se il cammino intrapreso è stato duro e impervio fino ad ora, improvvisamente respiriamo aria pulita e lieve, che ci riempie i polmoni di una nuova speranza: note dolci e melodiose ci fanno rilassare, in uno dei brani forse più affascinanti di tutto l’album, seppur privi della voce dominante di Lynn, che si palesa lieve come un sussurro soltanto al tramonto di questo piccolo capolavoro. Un giro di basso e chitarra ci trascinano in una coltre di nebbia, fitta ma amichevole, che quasi ci porta alla pace dei sensi. A parere di chi scrive, senza alcun dubbio, questa “Ghost” vale il loop fino allo sfinimento; ma non temete amici miei, non avrete tempo di rilassarvi, perché la successiva “Euphoria”, con le sue note allegre e divertenti, sarà un nuovo squillo che rianimerà gli spiriti: riff frizzanti, il ritorno della magnifica vocalist e delle nuove atmosfere elettrizzanti, ci fanno rimettere in sesto e ci ricordano che siamo ancora in balia di un sogno al quale tuttora non sappiamo dare risposta.
Ci interroghiamo a lungo sul perché di tutto questo, su come quattro ragazzi così giovani, al loro primo lavoro, siano riusciti a portarci lontani dalle comodità dei nostri idoli, irraggiungibili e inamovibili dai loro troni: ma ormai siamo in ballo e, decidendo di ballare, abbandoniamo ogni pregiudizio con la successiva “Prejudice”, che, potente come un macigno, ci rende partecipi della coronazione di una nuova, magnifica creatura, alla quale non possiamo che rendere omaggio con ogni devozione e attenzione: mitragliate e acuti vocali, la chitarra e il basso di una compattezza che non mostra mai una breccia, sono la dimostrazione palese di come gli OU sanno decisamente il fatto loro e lo vogliono dimostrare nota dopo nota al mondo intero. Abbandonandoci a questo ascolto, ci ritroviamo avvolti dall’oscurità profonda di “Dark”, dove la presenza dominante delle quattro corde di Chris Cui, fanno sprofondare la nostra mente in un oblio dal quale sembra non esserci più via di fuga: ma è in questa desolazione estraniante che, con le ultime forze rimaste, una luce ci trascina fuori dal vortice e alla definitiva risoluzione del nostro enigma.
“Light”, traccia conclusiva del disco, pare un angelo salvatore pronto a porci la mano, al fine di riportarci sulla Terra: la voce di Lynn è qualcosa di etereo, ci dice che siamo al sicuro, che non dobbiamo più avere paura. La nostra missione è compiuta, il sogno che ci ha fatto soffrire, affannare, vagare per lande desolate e misteriose, è finalmente concluso. Ma cosa ci resta di tante emozioni?
One è un lavoro complesso, forse non alla portata di tutti. Strumentalmente parlando siamo di fronte a qualcosa di splendido, calcolato e perfezionato nei minimi dettagli, registrato ancora meglio e che non annoia neanche per un secondo, incuriosendo l’ascoltatore a ogni nuova nota. Il tocco veramente incredibile e introvabile ai giorni nostri lo dà la voce pazzesca di Lynn Wu: credo non serva aggiungere altro, provare per credere.