Recensione: One Day Remains
Se nel lontano 2004 qualcuno avesse pronosticato che una band nata dalle ceneri dei Creed, eroi del post grunge di fine ‘900, sarebbe divenuta negli anni una delle formazioni di maggior influenza e successo della scena modern hard rock del nuovo millennio, difficilmente sarebbe stato preso sul serio. Eppure i fatti gli avrebbero dato ragione, perché gli Alter Bridge, Mark Tremonti alla chitarra, Brian Marshall al basso, Scott Phillips alla batteria e l’allora sconosciuto Myles Kennedy (ex Mayfield Four) al microfono, nonostante le etichette post grunge e alternative metal da più parti affibbiate loro, suonano in realtà un hard ‘n’ heavy chitarraio a tratti davvero esplosivo che ben poco ha in comune, in quanto a “voltaggio”, con la musica, piacevole ma “innocua”, di gruppi come i 3 Doors Down o i Creed medesimi.
Della stagione del Seattle Sound permangono certamente il flavour autunnale e le liriche introspettive di cui il grandissimo Myles Kennedy si è rivelato superbo cantore, con la sua timbrica vedderiana e la grande versatilità tipica del rocker di razza; tuttavia, sotto a questa “pelle” che ha indotto in errore parte di pubblico e critica, si cela una robusta ossatura fatta di riff a mezza via tra le cadenze di un hard rock ibridato con il grunge (dalle parti di Soundgarden ed Alice In Chains) e la furia cieca e opprimente di certo post thrash novantiano. Il motore di questo insolito ensemble risiede nella sei corde di un Mark Tremonti rivelatosi, post-Creed, insospettabile macina-riff di grande qualità e quantità, mentre il resto del lavoro poggia sulle spalle di una sezione ritmica, quella composta da Marshall e Phillips, solida, affidabile e in grado di assecondare con grande disinvoltura ogni cambio di mood.
“One Day Remains” costituisce il primo vagito di questo progetto, diventato poi negli anni una priorità per i quattro musicisti nonostante l’avvenuta reunion dei Creed, con relativo tour mondiale, e le frequenti apparizioni, sia live che in studio, di Myles Kennedy a fianco di una leggenda dell’hard ‘n’ heavy come Slash. E, a dirla tutta, non si tratta nemmeno del migliore dei tre album pubblicati finora, per quanto i motivi di interesse fossero già molti e la ricetta vincente che li ha fatti diventare col tempo stelle di prima grandezza ben più che un embrione. Eppure su “Blackbird”, a detta di molti il loro capolavoro, e su “ABIII” gli Alter Bridge riusciranno ad affinare ulteriormente la loro già valida proposta andando ad acuire la pesantezza delle trame sonore e accentuandone il riuscitissimo contrasto con le vocals meste eppure incredibilmente melodiche di Myles Kennedy, pur nel rispetto di una ricetta che si gioca su dosaggi molto precisi dei vari ingredienti.
“Find The Real” apre le danze con un riff massiccio e tonante che ha poco del minimalismo punk/noise dei Nirvana e molto dell’hard settantiano, declinato tuttavia con sonorità e distorsioni assolutamente contemporanee. Il tema melodico si dimostra fin dal primo ascolto di rilievo per quanto, a posteriori, la già notevolissima voce di Myles Kennedy non abbia ancora raggiunto la perfezione sfoggiata sui due lavori successivi. La title track presenta un ritmo più spedito, tuttavia pur non risultando un brano insufficiente, fallisce nel tentativo di ricreare la medesima alchimia tra parti vocali e strumentali complessivamente più deboli di quelle ascoltate nell’opener. Meglio la doppietta successiva, costituita da “Open Your Eyes” e “Burn It Down”. Entrambe colpiscono per l’incredibile bellezza delle melodie, orecchiabili eppure capaci di resistere alla prova di numerosi ascolti, quanto per la cura dei testi, perfettamente calati sull’atmosfera grigia e nebbiosa dipinta dai quattro rocker, mentre “Metalingus”, divenuta famosa anche grazie all’adozione come tema d’accompagnamento per l’entrata in scena del wrestler Edge negli incontri della WWE, si configura come una delle più heavy: il riffing è davvero tosto e l’amalgama con le vocals melodiche torna a funzionare ad altissimi livelli per uno dei brani-simbolo degli Alter Bridge.
Dopo le non indifferenti mazzate di “Metalingus” i tempi paiono maturi per addentrarsi nei terreni della ballata: su “On Broken Wings” i floridiani dimostrano di saper lavorare di fino, costruendo una canzone dominata, manco a dirlo, dalle lead vocals di Kennedy ma impreziosita da passaggi acustici, leggere pennellate strumentali e cambi d’intensità che, ferme restando le atmosfere sempre plumbee, ci trasportano senza dar troppo nell’occhio sui terreni della power ballad. “In Loving Memory”, dedicata da Tremonti alla madre all’epoca appena scomparsa, fa addirittura meglio, riuscendo nella sempre ragguardevole impresa di emozionare e, perché no? commuovere con poche, “semplici” note e grazie alla sentita interpretazione vocale di un Myles Kennedy sempre più protagonista.
“Down To My Last” si accoda per coordinate e riuscita al fantastico dittico composto da “Open Your Eyes” e “Burn It Down” facendo la felicità degli amanti delle melodie più aperte e cantabili, qui al top assoluto della categoria, ma senza dimenticare i fan delle acrobazie alla sei corde, sicuramente soddisfatti dal bell’assolo sfoggiato da Mark Tremonti. Il finale è affidato alla durissima “Watch Your Words” imperniata su di altro riffone di discendenza sabbathiana, di quelli che tanto piacevano ai Soundgarden più stoned, seguita dalla più anonima “Shed My Skin”, penalizzata da strofe non all’altezza, e dalla conclusiva “The End Is Here”, buona e costellata di passaggi strumentali che strizzano l’occhio al prog senza tuttavia far gridare al miracolo.
Che preferiate l’aura meno rifinita e forse più spontanea di “One Day Remains” o il vigore metallico dei due successori, poco importa, gli Alter Bridge sono una band che oggi riveste una grande importanza nel panorama del rock duro, non foss’altro che per la capacità di coagulare attorno alla propria musica dei numeri di un certo rilievo. Imitati fino alla nausea, non hanno forse inventato nulla, limitandosi a riproporre elementi già sentiti in altri contesti, seppur sotto una luce differente e con uno stile unico e riconoscibile lontano un miglio; nonostante ciò sono molti i gruppi, da qualche anno a questa a parte, a tentare di fondere la profondità e l’introspezione degli anni ’90 con il gusto per la melodia e la grandeur strumentale degli 80’s. In effetti, quell’equilibrio di opposti, a prima vista fragile, da cui nacquero Dokken, Europe e compagnia, pare rivivere, seppur aggiornato agli anni 2000 e alle “nuove” tendenze, in gruppi spesso (e frettolosamente) catalogati come post-grunge quali Alter Bridge, Shinedown, Nickelback e per certi versi Sixx A.M.. Per i rocker meno intransigenti l’ascolto è d’obbligo a patto di non aspettarsi suoni cromati e rombi di motociclette che potrebbero costare una cocente delusione; se, al contrario, siete a caccia di belle melodie e di grandi voci, le realtà appartenenti a quella che potremmo definire una sorta di New Wave Of American Melodic Hard Rock (ma anche molte altre che stanno nascendo al di qua dell’Atlantico, come The Wheel e Furyon) potrebbero costituire una graditissima sorpresa.
Stefano Burini