Recensione: One False Move (Reissue)
Nei primi anni Ottanta, il Canada possedeva un panorama AOR vitale come pochi, ricco di complessi da scoprire e valorizzare (Loverboy, Streetheart, Sheriff, Aldo Nova). Tra questi, ci sono gli Harlequin, un monicker sconosciuto ai più. In tutta sincerità, non possiamo farcene una colpa se i Nostri sono rimasti per lungo tempo trascurati a livello estero. Il motivo di questa mancanza risiede nel fatto che la fama degli Harlequin rimase relegata alla scena nazionale, cosa che capita non di rado alle band di culto.
Ora, grazie ad una veloce ricerca su Internet, possiamo scoprire le origini del combo, formatosi a Winnipeg (Manitoba) nel 1975, attorno alla figura del bassista Ralph James che arruola, tra gli altri, il cantante George Belanger e il chitarrista Glen Willows (le vere menti dietro al progetto). A scoprire gli Harlequin fu il producer degli Aerosmith, Jack Douglas, che decise di ingaggiarli dopo aver assistito ad una loro esibizione in un piccolo bar di Toronto. Con un contratto con la CBS/Epic, la partenza fu sfolgorante: “Victim Of A Song” (1979) raggiunse presto lo status di disco d’oro in terra natia, grazie a brani quali “You Are The Light” e “Sweet Things In Life”.
L’anno seguente, gli Harlequin ci riprovarono con “Love Crimes”, che migliorò le vendite, guadagnando il disco di platino. Risultati più che confortanti, se non fosse che il successo rimase limitato al Canada, lasciando i Nostri fuori dalla parte alta delle classifiche americane (chiodo fisso per qualunque rock band che ambisca al successo di fama e denaro). Dopo “Love Crimes”, i Canadesi si accinsero nell’impresa, coadiuvati dall’onnipresente Douglas. Il frutto dei propri sforzi vide la luce nel 1982, con il nome interlocutorio di “One False Move”, dove il combo era ormai conscio di giocarsi il tutto per tutto.
D’altronde, la volontà di proporre una hit scala classifiche è palese ascoltando l’immediata “Did It For Love”, che riassume con semplicità ed eleganza radiofonica lo spirito del gruppo: le tastiere picchiettano agili e gentili, tanto che non è difficile immaginare i rapidi saltelli di una maschera beffarda e giocosa. La canzone è scevra di sorprese eclatanti ma qui l’importante è il feeling fiero e vitale dei vibrati. Questo è, assieme alle tastiere, il tratto distintivo dell’Arlecchino, che non risparmia vigore nel semplice ed ammaliante ritornello.
La successiva “Hard Road” è un altro brano di valore e l’ennesimo riferimento alla ricerca del successo tra mille avversità. “Hard Road”, infatti, ha uno mood passionale, con assoli comunicativi e sessione ritmica che avanza a passo sicuro e deciso (senza mai che il mood risulti troppo duro o eccessivamente mellifluo). L’inno è energetico e disperato, scuote quanto basta per farci sentire l’impulso di unirci ai Nostri per scalare la difficile salita.
La strada continua ardua, in balia delle passioni, con “Shame If You Leave Me”: le chitarre regali si dileguano per lasciare la voce di Belanger smuovere le nostre emozioni, prima di catapultarle verso il coro, bellissimo e struggente.
Qualche attimo, si riparte sospinti dai veloci fraseggi e scoppia l’ennesimo invito: “Say Goodnight”. Ed è un vero piacere scivolare su questi tornanti melodici, così sinuosi e accattivanti. “Say Goodnight” ha l’epitome della hit sottovalutata e questo appare evidente alla luce del gioco chitarristico, che sprizza tonalità argentine e festose, in un vortice di romantico rock’n’roll.
Stacco e il cadenzato rock’n’roll di “Ready To Love Again” impone la tipica canzone sanguigna, dallo spirito stradaiolo e dal cipiglio spavaldo e deciso, gioventù bruciata decisa a perseguire il proprio obiettivo… fino alle estreme conseguenze.
“Fine Line” risplende dei tipici vibrati di casa Harlequin: lucenti, venati da una patina di nostalgia ma così accorati da sentirli crescere nel proprio piccolo cuore. Crescendo palpitante nel coro, dove Belanger chiude le strofe finali con commozione.
Più veloci ma sempre intensi ci accolgono gli assoli di “Heart Gone Cold”. Il delicato refrain fa pensare a come gli anni Sessanta non siano così lontani, se non fosse che il guitar work è sempre pronto a scuoterci. Non a caso è proprio la chitarra ad infondere quel giusto, spontaneo tiro ad “Heavy Talk”, che ci getta finalmente in pasto un bel ritornello hard’n’roll vecchia maniera, che sbuffa e mette da parte le delicatezze di un certo AOR. Willows sugli scudi, con fraseggi diretti ed epidermici, la cui ruvidità è levigata (forse troppo) dalla produzione.
Giunti alla fine del platter, scatta la hit single: ed ecco che dalle nubi sognanti dei synts si insinua “Superstitious Feeling”. E’ una canzone atipica, divisa tra due anime: una più energica e una più misteriosa, sempre con quel flavour malinconico, da paesaggio autunnale, distintivo degli Harlequin. Altrettanto caratteristico è il seducente refrain, il frutto dell’unione dell’anima romantica e rock del gruppo. La malia suadente delle strofe fa il paio con la sei corde e la tastiera, la quale fa ricadere piccole gocce di melodia sulla scia del coro.
La malinconica ed affettiva “It’s A Woman You Need”, sembra uscita direttamente del repertorio dei Foreigner. Un pezzo che avrebbe meritato maggiore attenzione, il cui messaggio viene sublimato dall’intensità emotiva della chitarra e dalle liriche, che languiscono come trascinate da una lenta corrente.
Lieto fine…?
Gli Harlequin non riuscirono ad imporsi sul mercato americano ma il Canada si dimostrò ancora una volta una nazione grata al proprio rock: “One False Move” si aggiudicò un rispettabilissimo disco d’oro in terra natia. Tuttavia, non si potè nascondere una certa delusione, ripensando alle vendite del precedente shot.
La fama raggiunta dai conterranei Loverboy fu per gli Harlequin solo un miraggio, forse complice la mancanza di un forte management, che li potesse proporre al pubblico statunitense (d’altronde, i Loverboy potevano contare su Bruce Allen, manager di un certo Bryan Adams…). Anche la possibilità di rivolgersi verso altri mercati svanì velocemente: il ritorno in Venezuala (tappa di successo del tour di “Love Crimes”) e la conquista europea sfumarono presto per mancanza di fondi, o più semplicemente per il disinteresse della label.
Senza perdersi d’animo, Belanger, Willows e soci proseguirono imperterriti sulla loro hard road e, scampato lo scioglimento, diedero alle stampe l’album omonimo (che chiuse la carriera della band all’insegna della hit minore “Take This Heart”). Come tutti gli eroi del passato, il complesso si riaffacciò sulla scena nel nuovo millennio, rivitalizzato da diversi tour in Canada e dall’uscita di “Harlequin II” e dell’album “Waking The Jester”. Insomma, la strada della vita è lunga e difficile ma avere una casa, dove essere sempre i benvenuti, è una gran bella consolazione.
Eric Nicodemo