Recensione: One Foot In The Grave
Album numero 17 dei Tankard, combriccola di santi bevitori tedeschi dai quali nessuno si aspetta il disco epocale, rivoluzionario, il capolavoro che ridefinisca il genere. Ai Tankard si chiede “appena” (si fa per dire) una manciata di canzoni divertenti, come hanno spesso dimostrato di saper fare in carriera (oltre 30 anni di borchie e boccali). Per certi versi questi alcolisti – tutt’altro che anonimi – di Francoforte incarnano nel thrash il ruolo che nel punk è stato dei Ramones, nell’hard rock è degli AC/DC e nel metal appartiene a band come Manowar o Running Wild, ovvero la capacità di coniare ed esprimere continuativamente un marchio ben definito, iconico e riconoscibile (che in alcuni dei casi citati alla lunga è sconfinato nell’autoparodia, ma questo è un altro paio di maniche…).
I Tankard non mollano, anche se con la consueta ironia ci dicono che sentono di avere magari un piede nella fossa. L’età avanza, la panza anche, ma il desiderio di quei ragazzini che nel 1984 registravano il demotape “Heavy Metal Vanguard” è ancora vivo e ardente, come fosse sempre quel giorno di 33 anni fa. Senza particolari colpi di scena, “One Foot In The Grave” è suppergiù esattamente il disco che ci si aspetta dai Tankard, né più né meno che l’assemblaggio dei soliti affidabili ingredienti: una copertina simpatica popolata da mostri alieni e animalacci, un’indole genuina ed entusiasta, un songwriting che alterna buone idee ad altre più ordinarie, una sensazione generale di solarità, positività e voglia di fare caciara assieme, tanto nel nome dell’alcol quanto della musica. A mio gusto e parere “The Evil That Men Display“, “Secret Order 1516“, “Arena Of The True Lies” e la title track si rivelano composizioni più che apprezzabili, quelle con una marcia in più nell’intero lotto; certo, mai granché innovative, ma comunque solide, ben fatte e trascinanti. Altrove si segue diligentemente il lavoro della band senza grossi sussulti. Un pezzo come “Pay To Pray“, posto per altro in apertura di scaletta, si guadagna la nostra attenzione esclusivamente per la simpatia verso il monicker in copertina, perché in tutta onestà se si trattasse di una canzone degli sconosciuti ed esordienti SkässenCrücchen di qualche remota e sperduta località della Westfalia minore l’avremmo probabilmente trascurata senza grossi rimorsi. Rispetto ad altri titoli della discografia del gruppo qui l’apporto del metal sul thrash è leggermente più rilevante, ma sono sfumature, i nostri rimangono riconoscibili e sostanzialmente impermeabili a cambiamenti macroscopici.
I Tankard ti conquistano a prescindere; non si vive di soli geni della nuova eterodossia metallica. Hai voglia a spendere fiumi di miele per i vari Meshuggah, Behemoth e compagnia filosofico-intellettuale che portano avanti la carretta del rivoltare il metal come un calzino; tutti questi geni dopo un po’ stuccano e riaffiora prepotente il bisogno di tornare all’anno zero, al minimo comune denominatore, alla fonte di quell’amore che ad un certo punto ti è scoppiato in petto per la musica metal. Prima dei grandi elucubratori del pentagramma c’erano le band “semplici” come i Tankard, riff, grinta, intensità, ritornello (ma i Tankard di ritornelli “veri” ne hanno pochi), assolo e poco più. Una ricetta al risparmio di giochi pirotecnici forse, ma estremamente ricca di passione e veracità. Una citazione di merito va anche ai testi, meno sciocchi di quello che l’atteggiamento “easy” dei Tanikoni farebbe pensare.
Marco Tripodi