Recensione: One For The Road
La graziosa fanciulla che ammicca dalla copertina di questo “One for the Road” ha un’aria raminga e molto rock’n’roll, e la valigia che trasporta (ancorché su uno sfondo alquanto desertico e desolato), evoca il tema del viaggio che certamente avrà caratterizzato per tutti o quasi l’estate che sta per terminare. Forse è perchè coinvolto da questa immagine e dalle suggestioni evocate, che nel cestone “virtuale” dei promo delle uscite Frontiers per il mese di agosto, il vostro recensore ha prescelto, tra tanti, questo album, opera di un quintetto dal nome nuovo, King Company, anche se carico di rimandi ad illustri vati della nostra musica del cuore.
L’albero genealogico dei componenti del combo, che, a dispetto degli affascini visivi proposti, non vanta, però, provenienze dagli U.S.A. bensì dalla Finlandia, ci narra di musicisti (come il fondatore Mirka Rantanen) giungenti da formazioni come Thunderstone e Warmen. Questi artisti hanno iniziato a suonare insieme in questo nuovo progetto due o tre anni fa, per arrivare al debutto discografico solo ora.
Il percorso sonoro dei King Company, però, ha poco a che fare con il power metal che è nelle radici dei suoi membri, ma pare rifarsi soprattutto all’hard rock melodico ed al class metal che, ai tempi che furono, imperversava ai due lati dell’oceano.
Ad esempio Shining, con i suoi riff di chitarre e tastiere, offre agli ascoltatori un midtempo melodic-rock di buona scuola, tra America e Nord Europea, carico di ariose armonie.
Wings of Love e Holding, ancora, sono altri prototipi di riuscitissimo MHR, tosto e gravido di luminosa musicalità.
Con One for the Road, poi, con il suo incipit in cui il cantante Pasi Rantanen pare omaggiare David Coverdale, nonché con le sue chitarre, le sue arie ed i suoi urletti, ci porta dalle parti del metal patinato e spavaldo dei Whitesnake di 1987 e dintorni, pur con qualche fuga di asce e di tasti d’avorio in area Deep Purple.
No Man’s Land (era anche il primo nome dato alla band), cadenzata e fiera ballata contrappuntata da tocchi di synth e d’elettricità chitarristica, insiste sui toni piacioni alla Whitesnake fine anni Ottanta. Lo stesso può dirsi, in parte, anche per Cast Away, altro slow che però assume pure contorni folk ed epici, memori di Magnum e Dare.
Il settore uptempo, invece, si completa con la radiosa In Wheels of No Return, con il veloce e spavaldo class metal di Coming Back to Life e con una Farewell in cui i lick della sei-corde trafiggono un brano dai contorni più metal e groovy, pur senza rinunciare alla cantabilità.
Differente, invece, rispetto al resto nella track-list, il mood di One Heart, nella quale le chitarre disegnano i contorni vagamente medio-orientali di un brano misterioso e scandito da un chorus anthemico.
In sostanza, i King Company non desiderano proporre nulla di nuovo o di artisticamente rivoluzionario, cimentandosi semplicemente con un suono dalle radici e dalle coordinate ben consolidate. Ma lo fanno con grande passione e destrezza, offrendo buone canzoni con rilevante energia, e mettendo tastiere, canto e chitarra fieramente ed efficacemente sugli scudi. Che cosa chiedere di più, in quest’ultimo scorcio d’estate?
Francesco Maraglino