Recensione: One Man Army
Gli Ensiferum sono una band in crisi.
Dopo i primi due album-capolavori, di un folk energico e dal respiro epico, al vocalist Jari Mäenpää successe Petri Lindroos. Il primo full-length di questa nuova era fu Victory Songs che, pur rimanendo su territori epici, sacrificava parte del folk in favore di una maggiore pesantezza sonora. L’album, pur riconosciuto come inferiore ai precedenti, fu molto apprezzato e dalla critica e soprattutto dal pubblico, il che spinse a credere che il livello qualitativo della musica dei Nostri potesse rimanere elevatissimo anche in questa nuova, seconda fase.
Con From Afar fu la band stessa a voler cambiare le carte in tavola. Introdusse spolverate più o meno generose di orchestra qua e là, smussò la produzione e introdusse nell’album due brani (o, meglio, due tipi di brano) che non aveva mai sperimentato prima e che erano destinati ad avere, come vedremo, una certa importanza in futuro: Twilight tavern e Stone cold metal; vale a dire la «party song» e il «capriccio». Il primo tipo è un brano dal tono decisamente spensierato, è facilmente assimilabile e trova la sua dimensione ideale nei live; il secondo, anch’esso dal tono spensierato o comunque leggero, è invece una composizione inusuale, bizzarra, che ammicca all’ascoltatore meravigliandolo con citazioni e inserti sonori fantasiosi. Erano, all’altezza di From Afar, due tipi di brano molto distanti dal sound epico e serio(so) che costituiva il marchio di fabbrica della band, eppure rimanevano limitate sperimentazioni di qualità altissima. In tutto il resto dell’album gli Ensiferum mantenevano il loro savoir faire o, come disse qualcuno all’epoca, la loro «eleganza compositiva». Anche questa volta i finnici avevano innovato il loro sound senza tuttavia snaturarlo, creando un album che risultava godibilissimo e ispirato.
A questo punto la band deve essersi resa conto che sarebbe stato difficile continuare sulla stessa strada di From Afar. La spinta innovatrice e il desiderio di maturare e di differenziarsi dalle miriadi di band simili devono aver fatto il resto: Unsung Heroes, uscito nel 2012, era infatti un album molto differente, che accentuava le composizioni lente e malinconiche. Molte le idee nuove ed interessanti; a tratti fallimentare il loro sviluppo. Questo nuovo stile implicava, tra le altre cose, la rimozione della «party song», e la riduzione dei «capricci», presenti in Passion Proof Power. Unsung Heroes dimostrava che la band da un lato non voleva più percorre la via di un folk da taverna; dall’altro che non riusciva nemmeno più a percorrere quella di un power epico particolarmente heavy o caricaturale: ne erano la conferma, rispettivamente, Retribution shall be mine, disperato e fallimentare tentativo di provare il contrario, e In my sword I trust, che il bassista Sami Hinkka definì, in un’intervista, semplicemente «cheesy».
Fatto sta che il pubblico considerò Unsung Heroes un passo falso da dimenticare per sempre e chiese a gran voce il ritorno delle sonorità precedenti.
Detto fatto: One Man Army è, in parte, un ritorno alle sonorità passate e un ripudio dell’estetica complessiva del bistrattato lavoro precedente. Ma ciò è sufficiente a rendere quest’album migliore? La risposta degli ascoltatori è stata generalmente positiva, ma forse le cose non sono così semplici.
Il primo problema di One Man Army è che il recupero delle sonorità di From Afar è solo parziale, in quanto sacrifica il folk in favore di parti orchestrali; parti orchestrali che sembrano provenire da Unsung Heroes, il che significa che spesso e volentieri sono insipide, quando non addirittura fastidiose. Prendiamo ad esempio la title-track: ad un riffing chitarristico poco ispirato si aggiunge un ritornello corale-orchestrale inconsistente. La traccia non presenta poi momenti memorabili, fatta forse eccezione per un furioso quanto rapido passaggio di batteria. Lo stesso discorso vale per My ancestor’s blood, brano tutt’altro che memorabile nel suo barcamenarsi tra fiacche lead guitar che vorrebbero forse riprodurre quelli dell’era-Jari, orchestrazioni sempre in sottofondo e cori à la Pohjola. Molto ben riuscito invece il riffing della seconda chitarra, che sfocia in un efficace ritornello. Ma, tra i brani più «sinfonici», il peggio ci viene proposto con Cry for the earth bounds e con Descendance, Defiance, Domination. Della prima va, per lo meno, rilevato il (non originalissimo ma efficace) intermezzo folk celestiale al quale partecipa la bella voce di Netta Skog (ex- Turisas). Il pezzo si prolunga però inutilmente per più di 7 minuti, nei quali viene proposto più e più volte il medesimo tema portante, che conclude il brano in una ripetizione quasi ad libitum. La seconda è invece «la canzone lunga dal titolo allitterato», che fa idealmente seguito a Passion, Proof, Power, salvo eliminarne ogni vivacità compositiva. L’hammond, presente in molti brani, viene qui particolarmente messo in evidenza nella parte narrata, inficiandone la pretesa epicità. Le parti orchestrali si limitano, per la maggior parte, a fungere da riempitivo e rimangono quasi sempre in sottofondo. L’efficacia della lead guitar non basta, da sola, a mantenere alta la tensione per i ben 11 minuti lungo i quali il brano si dipana.
Un fatto interessante di queste due tracce è che terminano entrambe come se andassero a chiudere l’album; in entrambi i casi, invece, seguono le più grandi sorprese di questo lavoro. La prima è il ritorno della «party song», nei panni di Two of spades. Le chitarre iniziali ricordano (non a caso) Twilight Tavern; si arriva a metà del brano con un coinvolgente ritmo sincopato e, dopo un ritornello da urlare a squarciagola, subentra un violino. Improvvisamente il brano subisce una battuta d’arresto e l’ascoltatore, divertito, si vede passare davanti, in successione, una chitarra funky, i Boney M. ed Ennio Morricone, che poi si fondono sotto l’egida di Frederik, noto DJ hillbilly-disco finlandese. E allora capiamo: la «party song» è stata, questa volta, unita al «capriccio». L’intento è quello di divertire e l’obiettivo viene colto in pieno. La seconda sorpresa è Neito pohjolan, che è invece il «capriccio» vero e proprio: si tratta di un brano interamente folk e unplugged, che vede la partecipazione della già citata Netta Skog, stavolta sia alla voce che alla fisarmonica. Che dire? È, semplicemente, una bella canzone di puro folk finlandese. Disgraziatamente, però, è anche il brano finale; vale a dire quello – l’unico – che vi ritroverete a canticchiare per ore dopo il primo ascolto del disco.
Per quanto riguarda gli altri brani, vale la pena segnalare che il picco qualitativo dell’album viene raggiunto dalla opener, Axe of judgment: sebbene a tratti ricalchi la title track di From Afar, il pezzo si distingue per una carica, un’epicità ed un’aggressività paurose; da sottolineare, in particolar modo, il drumming di Janne, vera e propria macchina da guerra. Imperdibile. Altra traccia di alta qualità è Warrior without a heart, brano ben riuscito in virtù della sua componente sinfonica, in questo caso efficace, e dell’originalità del ritornello, con proposta vocale di Petri e risposta di Sami.
Le due tracce che restano da passare al vaglio sono Heathen horde e Burden of the fallen. La prima è la Unsung heroes della situazione, caratterizzata com’è dal ritmo rilassato e da qualche calco melodico più o meno spudorato; spicca il bel ritornello eseguito dal coro. Il secondo, invece, è un intermezzo nostalgico unplugged che si candida per il premio «canzone inutile dell’anno»; parrebbe quasi uno scarto di Unsung Heroes, il che è tutto dire.
Ed è proprio questo il dato sul quale, volendo tirare qualche conclusione, vale la pena innanzitutto riflettere. L’impressione che One Man Army lascia all’ascoltatore è, infatti, che si tratti di un collage di b-sides di Unsung Heroes e di From Afar. Contiene, certo, qualche buono spunto, ma per il resto è il mestiere a farla da padrone. È significativo il fatto che le uniche composizioni davvero memorabili sono i «capricci», vale a dire quelle che si allontanano dallo stile della band. Nasce il sospetto che gli Ensiferum, con questi ultimi, cerchino proprio di compensare una carenza di idee e un’impossibilità di (ri)trovare un proprio stile personale. Quest’ultimo è un problema che si trascina dall’abbandono di Jari, dopo il quale, come si è visto in apertura di recensione, non ci sono più stati due album di séguito che avessero un sound simile. In questo senso, gli Ensiferum sono una band in crisi; e questo album lo dimostra chiaramente.
Parallelamente, suscita stupore il fatto che il combo finnico risulti assai convincente sui brani leggeri e, al contrario, piuttosto insipido e innaturale quando vuole fare sul serio. Non a caso, di folk epico non c’è più traccia: qui il folk, quando non è limitato a qualche misera parte di kantele seppellita tra le orchestrazioni, è semplicemente pop (Neito pohjolan) oppure buffo intrattenimento (Two of spades); il compito di creare atmosfere dal respiro bellico è ora stato definitivamente demandato ai cori, che riescono in genere ad ottenere l’effetto sperato, e alle onnipresenti orchestrazioni, le quali invece, nella maggior parte dei casi, hanno il solo effetto di infastidire l’ascoltatore e di rendere il sound complessivo dell’abum generico e troppo in linea con quella che sembra essere diventata una (deleteria) moda.
One Man Army non è un brutto album. Non è un album necessariamente da dimenticare. È un album che, tuttavia, verrà dimenticato. In attesa che gli Ensiferum decidano, finalmente, che musica vogliono suonare.
This is what you get,
When you ask more and more.
Kiki diki bang bang all night long
We’ll kick you in the balls!
Like the legend says
“Töttöröö, King Kong”
Über heavy Viking metal!
There’s no sense at all!
In the lyrics whatever fits
Thunder tits!
Magic, swords, and dragons!
That’s all that matters!
We wrote this song
To please you all
Cover songs to play
Wise words to say
So sing along it’s a bonus song!
(Ensiferum, Bonus Song)
Francesco “Gabba” Gabaglio