Recensione: Ongonga

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 22 Gennaio 2025 - 8:30
Ongonga
Band: Ubris
Etichetta: Deep Sound Record
Genere: Stoner 
Anno: 2024
Nazione:
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68

In un contesto storico in cui nell’ambito musicale la voglia di sperimentare conduce, molto spesso, verso direzioni discutibili e da dimenticare, provoca piacere, ogni tanto, ascoltare dei lavori che si ancorano alla tradizione di un genere, anche se dai contorni un po’ più dilatati e a tratti sfocati. La tradizione del Rock Stoner, che parte dagli anni ’60 grazie all’opera dei Blue Cheer e si sublima con l’avvento dei Kyuss, nel nordest del nostro Paese si spinge verso i già citati contorni, sotto forma di confini, poco definiti grazie all’opera degli Ubris i quali calano il loro lavoro in una dimensione essenzialmente strumentale e questo rappresenta un elemento non proprio ampiamente replicato nella storia del genere. In Ongonga l’ascoltatore viene trascinato nel mondo della musica per mezzo della letteratura, in quanto dal primo all’ultimo brano si assiste a un climax che fa apprezzare l’intero album, dall’essenziale Yopo fino alla più articolata e complessa Stramonium. Appaiono interessanti l’approccio compositivo, già presente in Hobolo, e l’amalgama che i musicisti dimostrano.
Comporre brani strumentali che poi devono essere suonati in sequenza non è propriamente semplice, soprattutto se il genere in questione è poco incline a questa tendenza; infatti molto spesso si ha la sensazione di ascoltare un brano canonico dal quale è stata semplicemente estrapolata la voce. Non si chiede un’abilità compositiva come quella messa in mostra da Steve Howe in Beginnings, però in alcuni passaggi sarebbero state gradite all’orecchio delle variazioni per avvicinare maggiormente l’intenzione a un brano “realmente” strumentale.

Il sound degli Ubris appare lurido e marcio. Dalla opener Yopo, strutturalmente amorfa nella sua essenza, si capisce subito quale può essere il biglietto da visita della band.

Questo progetto nasce a Padova nel 2015 dalle menti di Morgan Zambon e Diego Donetto e successivamente ha visto unirsi anche i musicisti Christian Chillon ed Enrico Babolin.

Il loro primo album Hobolo risale al 2018 ed è anch’esso composto da tracce interamente strumentali.

Il mini in oggetto dal titolo Ongonga è una specie di contenitore di natura strumentale dalle sonorità fuzzose e dai tempi dilatati, Stoner allo stato puro con qualche sprazzo di modernità.

Riff sabbathiani e atmosfere a tratti seventies sono gli ingredienti principali del platter, come nella successiva Kukuta, dall’intro che sembra davvero uscita da un soundcheck d’altri tempi sul palco. Decisamente affascinante ed evocativo.

Brani come Strychnos Nux Vomica e Spartium Junceum scorrono via velocemente. La sostanza tuttavia non cambia. Tutto si costruisce intorno alle prime idee di chitarra o basso e a volte le evoluzioni sanno di “già sentito”, mentre altre volte hanno delle destinazioni che lasciano ben sperare tendendo a qualcosa di più sperimentale.

Purtroppo a tratti, durante l’ascolto, si comincia a percepire l’assenza di una vera e propria figura vocale all’interno delle canzoni. Le scelte stilistiche non sono mai materia di chi recensisce, ma la sensazione è molte volte dietro l’angolo e richiede qualcosa che possa spezzare o semplicemente variare le atmosfere monotonali tanto care agli stessi Ubris. L’intento di questi ultimi sicuramente non è quello di stupire o di creare innovazioni nell’ambito musicale e dunque non necessariamente questo va inteso come un punto a sfavore. Si percepisce invece una coerenza stilistica e uno stato di puro divertimento dal suonare assieme e dal creare qualcosa di proprio.

Il picco del disco è senza dubbio Atropo, brano che supera i 6 minuti ma che al suo interno ha senza dubbio elementi più interessanti e freschi rispetto agli altri brani. L’arpeggio di chitarra iniziale crunch-channel ricorda vagamente quello di Melancholy degli Iced Earth per intenzioni e cadenze. Le dissonanze si fanno più intense nella parte centrale della composizione per poi ritrovarsi di fronte al vero e proprio riffworking classic-style.

Acidissimo il finale, che riporta con la macchina del tempo al Bizarre Festival del ’95 con i Kyuss in prima linea sul palco.

Mixato e masterizzato da Matt Bordin negli Outside Inside Studio di Treviso, Ongonga è decisamene un lavoro ben fatto dal sapore concreto e coerente. Le chitarre sono molto avanti, compresse e onnipresenti. La batteria resta un po’ offuscata, segno tipico dei dischi del periodo d’oro, ma con un effetto finale riuscito che dona la giusta dose di “sporcizia” e “tossicità” al wall of sound.

L’enigmatico e suggestivo (anche nei colori) artwork di The Mesh e Riccardo Zulato riesce a incuriosire e crea un’ottima aspettativa.

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