Recensione: Only One Life

Di Alex Casiddu - 11 Maggio 2013 - 19:30
Only One Life
Band: Paris
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
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58

Il duo francese dei Paris – cosa c’è di più facile che prendere il nome della propria città come moniker? – si affaccia alla finestra con vista sullo sconfinato mondo della musica AOR, speranzoso di fare il “botto” che gli consentirebbe di entrare nell’elite della scena rock melodica internazionale.
Per dare buon esito al tentativo, Frederic Dechavanne e Sebastien Montet – rispettivamente voce/tastiera e chitarra – si avvalgono della collaborazione di pregevoli ospiti che vanno a completare la line up della band.
Troviamo quindi Anna Portalupi (Lionville, Hardline, Skill In Veins) al basso, Alessandro Mori (Mich Malloy, Lionville) alla batteria, Robert Sall (Work of art, W.E.T.) alla chitarra, Steve Newman (Newman, Big life) ai cori e – “last but not least”Alessandro Del Vecchio (Lionville, Hardline, Edge of Forever) a dar man forte nei cori e soprattutto a ricoprire il ruolo fondamentale di produttore.
Le premesse sembrano esserci tutte per non sfigurare ma, come giusto che sia, nella musica non sono i nomi a dare valore, ma le note.

Non appena ci apprestiamo ad esplorare le canzoni contenute in “Only one life”, purtroppo ci troviamo d’innanzi alla parte debole di questo progetto transalpino.
Ineccepibile la produzione, cristallina e con gli strumenti ben livellati tra loro; ma solo questo non basta per far decollare il disco, che per l’intera durata resterà scialbo e senza mordente.
Già dalle iniziali “Dancing on the edge” e “What should we be saying” sembra mancare quello spunto fatto di ritornelli di facile presa e riff di chitarra ariosi e trascinanti: è risaputo che quando un album parte in sordina, difficilmente riuscirà a risalire la china col trascorrere dei minuti.
I Paris provano a riprendere in mano la situazione, e in qualche episodio parzialmente ci riescono: “South of love” e “Longer than i care to remember” risultano essere i brani migliori di tutto il lotto, grazie al fatto d’aver osato un po’ di più, iniettando una massiccia dose di personalità.
Cosa purtroppo assente nei restanti episodi, che seppur sempre ben arrangiati e suonati magistralmente, risultano monotoni e non fanno scattare la scintilla nell’ascoltatore, lasciando il tutto incolore ed anonimo.

Si rivede qualche timido spiraglio di luce sul finale con “Handle with care”, in ogni caso troppo poco per cambiare le sorti del disco: pare sempre di trovarsi di fronte a delle composizioni ancora a livello embrionale, in attesa cioè, di assumere un’ identità ben definita.
Il fatto di percepire costantemente questa sensazione si dimostra un ostacolo insormontabile per i francesi: un aspetto sul quale la coppia dovrà riflettere, rimboccandosi non poco le maniche.
Oggi per sfondare nell’AOR ci vuole ben altro che un disco “di mestiere”: le band iniziano ad essere tante e solo chi è riuscito ad imporsi col tempo può permettersi passi falsi, cosa che i Paris non possono ovviamente permettersi.
A conclusione troviamo “For the time still to come”, una ballad che si trascina stancamente verso la fine di questi quarantasei minuti di musica che, a bocce ferme, lasciano poco o nulla all’ascoltatore.

La storia del duo Dechavanne/Montet ricalca quella di altri artisti affermati; ovvero amicizia nata da ragazzini, stessa passione per la musica rock e voglia di imbracciare uno strumento, formare una band, e tentare il successo.
A molti loro colleghi questo percorso è riuscito, anche ottimamente in molti casi; per i Paris invece la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa. Serve ben altro che prendere una manciata di musicisti validi per avere visibilità e fiducia incondizionata. Dovranno obbligatoriamente dare il meglio di loro stessi se vorranno lasciare il segno nell’AOR che conta; tanto per intenderci quello che i loro ospiti fanno in maniera egregia con le rispettive band.

Au revoir Paris!

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