Recensione: Onward
Quarto full-length per i finland… no, no, per gli italiani Black Therapy. Un’indecisione… simulata, questa, per far subito intendere che la prerogativa di suonare death metal melodico pregno di emotività non è solo retaggio dei Paesi scandinavi.
I romani, difatti, con “Black Therapy” raggiungono la giusta maturità per dire la loro nell’affollato panorama del metallo internazionale. Anzi, urlare la loro.
Partendo da uno stile che si dimostra, a mano a mano che scorrono i brani, piuttosto originale. Il che è un gran pregio considerato che, a detta dei detrattori – cui lo scrivente si dissocia con decisione – , ciò che un tempo è stato il gothenburg metal non abbia più nulla da dire. Un errore marchiano, questo, poiché la forma natìa si è evoluta in più fisionomie, nettamente distinte fra loro, che, sempre e comunque, hanno le radici piantate nel terreno-madre.
Non solo, Giuseppe Di Giorgio e i suoi compagni riescono a mettere su uno stile particolare, appunto, che prende vita, aria ed energia dalla forza dei sentimenti. Sentimenti, che, come si può sospettare dalla premessa, sono inclinati verso profondi singulti di melanconia tipici degli act provenienti dal circolo polare artico. Non depressione però ma, al contrario, uno stato d’animo accesso e attento a ciò che lo circonda grazie, nondimeno, ai cinque sensi attivati dal flusso emotivo che funge da spina dorsale del platter.
Si rimarca ancora la tipicità di una foggia musicale che richiama quasi immediatamente il quintetto laziale, rinvenibile facilmente in un sound possente, massiccio, aggressivo, contrapposto a un contenuto melodico assai rilevante. Melodia adulta, ricercata ma, quasi fosse un’antitesi, anzitutto immediata. È forse qui che alberga il punto forte del gruppo: creare armonie, dal sapore un po’ gotico, che si fiondano dritte nel cuore e nell’anima senza essere né stucchevoli, né tantomeno accattivanti. Nulla che si possa definire catchy, insomma.
L’LP, invece, esige ascolti con la mente concentrata sull’obiettivo, che è quello di ricreare, dentro, un caldo e rassicurante mondo fittizio, reso visibile da leggere nonché marcate pennellate a tinte pastello tendenti allo scuro.
Irreprensibile l’esecuzione strumentale dei membri dell’act capitolino, obbligatoriamente professionale per emergere dalla mediocrità e per salire sui gradini più in alto nella scala dei valori tecnico-artistici. Di Giorgio si rivela essere un cantante versatile, a suo agio con growling, harsh vocals e pulito. Le linee vocali si srotolano principalmente grazie all’energia del primo delle fogge canore citate, risultando sempre intelligibile ma soprattutto intonato, il che non è poco, al sottofondo musicale vero e proprio. Questi elaborato dal talento dei due chitarristi Andrea Mataloni e Davide Celletti, che rompono le ossa con un possente riffing, prima di curarle con la dolcezza e la melodiosità delle sezioni specificamente soliste. Un castello che poggia le sue fondamenta sulla base ritmica costruita da Lorenzo Carlini (basso) e Francesco Comerci (batteria), precisi come un metronomo, erogatori di montagne di watt sino a superare la barriera al calor bianco dei blast-beats (‘Together’).
E, a proposito di canzoni, difficile sceglierne qualcuna migliore delle altre visto che, anche in questo caso, l’innata propensione compositiva della band è capace di soffiare vita e singolarità in tutte e nove le tracce, rendendole ciascuna dotata di un’autonoma personalità e di uno specifico leitmotiv. Singole tracce che variano nella propria durata, rendendo così l’insieme vario e distante anni luce dalla noia. Se proprio bisogna menzionarne una, il pensiero va all’opener-track ‘Onward’. Splendida nella sua apparente timidezza, spalanca l’immaginario costringendo a socchiudere gli occhi per gustare al massimo possibile la spinta visionaria del fantastico chorus.
Che dire, in definitiva? «Che gran bella sorpresa!».
Daniele “dani66” D’Adamo