Recensione: Open Hostility
“Questo disco contiene sarcasmo, humor, testi offensivi e violenza. Tutto ciò potrebbe urtare la sensibilità di tutti coloro per i quali non nutriamo alcun rispetto”.
Questo, pressapoco, quello che si poteva leggere, tra le altre cose, nelle note di copertina di Open Hostility, album dei canadesi Razor, uscito nel 1992 a coronare un’ eccellente carriera costellata di validissimi lavori.
Il Canada, si sa, fu una delle poche nazioni a poter rivaleggiare negli anni ’80 con gli Stati Uniti e la Germania in quanto a produzioni in campo thrash, basterà ricordare i nomi di bands come Voivod, Slaughter, Annihlator o Sacrifice, e naturalmente i Razor che tra questi furono senz’altro i più prolifici potendo vantare ben 10 album e diversi ep nell’arco di oltre 20 anni di attività.
Seguiti e onorati da un manipolo di fedelissimi fan lungo tutto l’arco degli anni ’80, i Razor divennero una vera e propria band di culto nel loro paese, penalizzati però da una pessima distribuzione dei loro lavori e dal fatto di non aver mai messo piede al di fuori del loro paese. Il 1992 fu l’anno dello scioglimento,ma furono riformati nel 1997 dal chitarrista Dave Carlo con una nuova line-up.
Open Hostility uscì nel 1991 e fu, si può dire, l’ultimo album del periodo “classico” dei Razor, ove per classico si intende ovviamente qualcosa di molto attinente agli stilemi tipici del thrash metal. Diciamo subito che non si tratta probabilmente del miglior album dei Razor. Questo andrebbe forse cercato tra i due album precedenti, cioè Shotgun Justice del 1990 e Violent Restitution del 1988.
Si tratta però di un tipico album dei Razor, nel senso che è un concentrato di tutti gli elementi che li hanno resi a loro modo unici: riffs killer, stacchi improvvisi, doppia cassa come se piovesse, e la voce tagliente e inconfondibile di Bob Reid quasi al limite con l’hardcore.
La caratteristica principale di questo lavoro è dunque una intensità pazzesca, dall’inizio alla fine. Non vi sono brani lenti ma anche i mid tempos scarseggiano e sono comunque strategicamente posti in modo da creare la giusta tensione prima dell’esplosione di un riff a velocità supersonica (come in Sucker For Punishment o in Bad Vibrations).
In un intervista di qualche anno fa, fu lo stesso Dave Carlo a ricordare come questo album volle essere una reazione all’ammorbidimento degli altri gruppi thrash come Metallica, Anthrax e Nuclear Assault che proprio in quegli anni se ne uscivano con album certo non brutti ma che poco avevano a che fare con la furia e la velocità degli esordi.
E’ dunque un thrash che lascia senza respiro, brani cortissimi e velocissimi di una intensità paurosa. I riff sono molto “squadrati” pur nella loro complessità e ben si adattano ad una struttura ritmica incentrata sull’uso spasmodico della doppia cassa e intervallata da frequentissimi break.
La voce di Bob Reid è una classica voce hard/metal e il fatto di sentirlo “urlare” come un ossesso su brani velocissimi fa veramente uno strano effetto e probabilmente contribuisce a rendere inconfondibile quel suo timbro “strozzato” divenuto marchio indelebile di tutte le produzioni targate Razor.
I testi infine sono, in alcuni casi socialmente impegnati (In protest, o End Of The War), mentre in altri volutamente sarcastici e ironici (Cheers, Free Lunch) se non addirittura apertamente critici verso alcune categorie (Red Money si scaglia ad esempio contro gli usurai mentre i critici rock sono presi di mira in I Disagree).
E’ difficile scegliere quale canzone sia la più rappresentativa, essendo francamente tutte molto simili le une alle altre. Possiamo però dire che Sucker For Punishment, Road Gunner e Iron Legions brillano particolarmente per energia e potenza.
Nel 1999 I Razor fecero la loro prima apparizione live al di fuori del Canada, infiammando uno dei palchi del festival di Wacken e dimostrando al resto del mondo di essere perfettamente in grado di riversare dal vivo tutta la furiosa potenza dei loro dischi.