Recensione: Opening of the Eye by the Death of the I
Capita, di tanto in tanto, di trovare album che di primo acchito proprio non piacciono: le cause possono essere numerose, ma di solito sono da ricercare in una proposta troppo diversa dalla comfort-zone musicale dell’ascoltatore di turno o in una effettiva pesantezza e poca digeribilità del prodotto presentato, passando poi per altre motivazioni più o meno soggettive e più o meno pretestuose (“la voce non mi piace; fanno sempre la stessa solfa; mettono insieme troppe cose tutte in una volta; non hanno personalità; non mi dicono niente” etc.). Capita, poi, che alcuni di questi dischi, nonostante un primo approccio non particolarmente positivo, contengano in sé qualcosa, un elemento indefinito che però spinge l’utente a concedere un altro ascolto, più attento e approfondito, il quale, improvvisamente, permette al suddetto utente di intravedere la giusta chiave di lettura e gli spalanca finalmente le porte di un gioiellino inizialmente snobbato. Scrivo questa premessa perché, come avrete intuito, “Opening of the Eye by the Death of the I” è proprio un album di questo tipo, quindi mettetevi comodi e concedetemi qualche minuto del vostro tempo.
Gli In Human Form, terzetto (o quintetto?) originario di Lowell, in Massachussetts, sono attivi fin dal 2006 ma si sono spesso tenuti nell’ombra, affiancando un’intensa attività dal vivo alla continua opera di perfezionamento della loro creatura, da loro stessi definita “Atra Metalli Metaphysicam”: un mix di generi apparentemente inconciliabili tra loro quali progressive, jazz-fusion e black metal. Già vedo le vostre sopracciglia schizzare verso l’alto, e ammetto che anche per me il primo ascolto di questo album è stato piuttosto destabilizzante, non essendo io molto avvezzo a simili amalgama, ma già dal secondo passaggio in poi sono riuscito a comprendere ed apprezzare pian piano il vortice sonoro prodotto dai nostri amici d’oltreoceano. Sei tracce complessive, divise in tre ampie dissertazioni musicali (non saprei come altro definirle) della durata media di un quarto d’ora legate da tre interludi fluidificanti, per diffondere un messaggio d’avantgarde spinta costituito da continui cambi di tempo, atmosfere vorticose e cangianti e ripetuti saliscendi strumentali, durante i quali si alternano sfuriate heavy a passaggi più lenti e contemplativi. Questa la materia prima su cui si sviluppa la proposta del gruppo, condita poi da una spruzzata della studiatissima sregolatezza Shuldineriana (i Death sono uno dei gruppi preferiti del combo americano, e durante l’ascolto si sente) e da digressioni che ripescano nientemeno che dai King Crimson e Frank Zappa. Ciliegina sulla torta (che però fu la principale motivazione del mio iniziale spaesamento, non mi vergogno ad ammetterlo), il cantato disperato e lacerante di Patrick, capace di passare da uno screaming drammatico e lancinante a una voce pulita dalle fortissime connotazioni rituali e declamatorie.
L’esposizione track-by-track diventa inutile in questo caso: “Opening of the Eye by the Death of the I” va preso tutto insieme e trattato come un unicum inscindibile, materia musicale in costante divenire in cui ogni elemento, seppur nella sua apparente inconciliabilità con tutto il resto, trova il suo spazio e si amalgama fluidamente nel melting pot sonoro dei nostri. Certo, alcuni passaggi un po’ forzati, in cui la transizione da un movimento all’altro non avviene nel modo più fluido, ci sono, ma nel complesso si assiste a un continuo flusso e deflusso atmosferico, un ottovolante emozionale che in più di un’occasione si rivela assai ostico ma che, cionondimeno, alla lunga funziona. E funziona anche bene: già dall’inizio sottaciuto e incombente si passa a una sognante e quasi romantica disperazione, un incedere smaccatamente progressive che si spinge fino ai confini umorali più dissonanti per dare alla luce un affresco solo superficialmente disarmonico. Con le prime avvisaglie di allarme la velocità si fa frenetica, il ritmo incalzante, per sprofondare in un black metal più canonico ma sempre rivisto attraverso un filtro istrionico e schizoide, salvo tornare improvvisamente alla calma e sedare così ogni eccesso in tempo per un arpeggio disadorno e velatamente inquietante, le cui brevi ed estemporanee sfuriate servono solo a caricare l’atmosfera di una nuova elettricità in vista del ritorno ai vortici concentrici che piacciono tanto al quintetto e che apriranno la strada a una nuova accelerazione. La sezione ritmica si destreggia egregiamente su partiture quanto mai variegate, che spaziano da una reiterazione ossessiva, insistita e incombente a sprazzi estrosi e a loro modo funambolici, lasciando al basso la possibilità di fare ciò che vuole sfruttando le dissonanze già citate per togliere all’ascoltatore punti di riferimento e stordirlo infine col gioco delle chitarre, che senza sosta intessono il loro incantesimo tra fulminanti sferzate acide ed improvvisi passaggi dal lirismo quasi commovente.
“Opening of the Eye by the Death of the I” è un album di livello, ma è anche un album che a causa della sua intrinseca complessità risulterà indigesto a buona parte del pubblico, soprattutto di quegli utenti che non sono disposti a sforzarsi il tanto che basta per passare da un semplice ascolto, per quanto attento, a una più profonda e consapevole assimilazione delle sue sfumature: ogni ascolto dell’album svela nuovi dettagli, nuove tonalità, nuove pennellate che si aggiungono e si combinano con le percezioni precedenti, sedimentandosi e contribuendo alla formazione di un affresco musicale caleidoscopico, variegato e rotondo.
Assolutamente consigliato, ma solo se avete abbastanza pazienza.