Recensione: Opium Hotel
Piccoli grandi colpi di scena, a livello personale, proprio sul finire di questo 2003, musicalmente molto intenso, che ha visto, nell’arco di dodici mesi, regalare grandi conferme e grandi delusioni, ma comunque una qualità media in sensibile crescita.
Così, se i miei giudizi non si erano finora mai spinti troppo oltre la consueta soglia della normalità, oscillando all’interno dei range solitamente più “popolati” di voti, si può ora parlare di colpi di scena con due album decisamente fuori dell’ordinario: difatti, dopo aver appena assegnato il secondo voto più alto dell’anno a quel capolavoro di The Deus Ex-Machina as a Forgotten Genius degli esordienti Comity, mi trovo adesso alle prese con un disco che, invero, di magnifico ha ben poco, pochissimo, anzi niente!
Giusto in tempo per concorrere alla candidatura di peggior platter dell’anno arriva, infatti, questo Opium Hotel, che invece in principio aveva generato non poca curiosità e speranze, soprattutto nei fan di Warrior Soul e Spaceage Playboys, di cui Kory Clarke è insostituibile frontman.
Chi si aspettava qualcosa di simile ai succitati gruppi deve essere sicuramente rimasto deluso, come pure chi si aspettava che questo esordio da protagonista tirasse fuori il 100% del suo stile e della sua eccentrica personalità senza dover scendere a fastidiosi compromessi; dico questo perché il debut album in questione è lontano anni luce da qualsiasi possibile idea vi possiate fare di esso… e non certo in senso positivo.
Un lavoro fuori dall’ordinario, nato da un improbabile connubio tra un indie rock dall’attitudine spesso cangiante e atmosfere ogni volta diverse: ora quasi hip-hop, ora alternative, ora simili a certa musica inglese da club.
Un 14-piece contenente cinquanta minuti di musica controversa, di difficile assimilazione, che lascia perlomeno spiazzati: le tracce apparentemente molto simili tra loro, rivelano, col ripetersi degli ascolti, sfumature differenti di song in song, in un lento divenire che però non porta altro che ad una precoce interruzione del cd per consentire alle proprie orecchie di rifiatare.
Dire, appunto, che la struttura musicale lasci a desiderare sarebbe un complimento troppo grande quasi quanto asserire che la voce, perennemente filtrata e/o effettata, del singer sia sopportabile per non più di un paio di canzoni. Il fatto è che tra le proposte di Clarke non ce n’è alcuna veramente efficace, che riesca a coinvolgere interamente, a suscitare un minimo di ammirazione.
Tralasciando la strumentale opener, è Corporate Genocide il primo vero brano del lotto che a lungo andare riesce a risultare persino piacevole, se non fosse per la sua brevissima durata che le fa avere un peso specifico quasi irrilevante ai fini di giudizio sull’intero full lenght. L’ultra campionata Without Guns è uno degli episodi più vuoti di O.H. che lascia il proprio posto ad un altro, incredibile a dirsi, ancora peggiore: sopra una base loopata fino all’ossesso, che sembra rubata ai Cypress Hill più tediosi che abbia mai sentito, la voce di Kory si diletta a cantare con il suo solito fare sbiascicato, svogliato, spesso – volutamente? – dissonante, quasi a intendere che l’attenzione vada concentrata nelle parole e non nella loro forma o nella struttura delle sue canzoni. Ed, in effetti, qualcosa da dire i testi ce l’hanno, sicuramente più della musica che appare soporifera come poche: le liriche risultano piuttosto aggressive, mostrando un forte impegno sociale da parte del nostro cantante; peccato che nella musica i testi non siano tutto e, al di là del loro più o meno condivisibile punto di vista, il sound rappresenti l’aspetto principale (d’altronde siamo in un portale di musica, no?)
Fortuna che a risvegliare un po’ dalla sonnolenza sonora ci pensano pezzi più movimentati come Reverse o quella Religion Buzz dall’inizio che pare quasi originato da una storpiatura del riff principale della celeberrima Smoke on the Water, ma neanche qui il risultato, in termini musicali, viene raggiunto pienamente, lasciando così che ad impressionare positivamente siano alla fine brani lenti quali Dream Japan o Penguin Song, dove gli sperimentalismi, in particolar modo nel primo caso, sono ridotti al minimo e l’atmosfera quasi two step li rende particolarmente indicati come sottofondo al quotidiano tran tran, ma niente di più.
Da menzionare la titletrack che qualche piacevole spunto lo offre in più di una occasione e la conclusiva Another War, certamente la canzone più gradevole in assoluto, la quale, paradossalmente, lascia invece ancor più amareggiati poiché rivela come buone idee in fondo potevano essercene e, al contrario, non sono state adeguatamente sfruttate preferendo correr dietro a una chimera che invece non si è trovata; mentre ad essere trovato è stato solo un lungo disco pesante e di dubbio gusto che infine mi ritrova inevitabilmente accodato al lungo trenino di colleghi che già l’hanno schiettamente definito come un “mattone terrificante senza capo né coda”.
Se spulciando, quindi, alcune riviste musicali vi capitasse di leggere, al contrario, quell’articolo estratto da chissà da quale periodico inglese che in una vistosa didascalia si poneva la seguente, retorica, domanda: “Has the time finally come for one of rock’s angry man?”; sappiate che la risposta è un sincero e ben-augurante “No!” con tanto di punto esclamativo, dato che questa prova solista di Kory Clarke è un paranoico trip post-narcotico, avaro non certo di originalità, bensì di tutte quelle piacevolezze prodigate da altri autentici rock’s angry man.
Un motivo in più per non rimpiangere troppo questo 2003, che con Opium Hotel, ci lascia sì alquanto delusi, ma speranzosi, anzi convinti, che il prossimo anno ci regali lavori ben più interessanti di questo.
Da mettere nella calza della befana al posto del carbone!
Emilio “ARMiF3R” Sonno
Tracklist
01. Jihad Vs. McWorld
02. Corporate Genocide
03. Without Guns
04. Yummy House
05. Reverse
06. Mr. Harris
07. Religion Buzz
08. Dream Japan
09. Penguin Song
10. Boom Ka Boom
11. Opium Hotel
12. The City Today
13. Sky High
14. Another War