Recensione: Opus Dementiae
Avete presente quella strana sensazione che vi coglie quando ascoltate
qualcosa che avrebbe tutte le carte in regola per piacervi, incuriosirvi e farvi
premere di nuovo ‘Play’ dopo la fine, ma vi lascia invece con l’amaro in bocca?
Quell’impressione di incompiutezza, aspettative tradite, che vi porta a riporre
il cd, magari appena acquistato, sullo scafale nel punto più ignorato della
vostra collezione? Bene, il concetto che avete appena realizzato fotografa
pienamente la mia reazione al nuovo album degli Ensoph.
La band decide di illustrare con questo disco un concept filosofico-esoterico
decisamente complesso, che ci viene introdotto sul suo sito ufficiale con un
preambolo che contiene nella sua conclusione la seguente frase:
Se il mortale si definisce dialetticamente tale in rapporto
al divino, che uomo sarà quello che erige a divinità la finitezza e la
consunzione? Un uomo nuovo, fieramente divino e tragicamente sconfitto.
Ma il manifesto filosofico della band italica rischia di assumere toni
auto-sarcastici, sfortunatamente, nell’ascolto di questo Opus Dementiae:
senza fare alcuna facile ironia sul titolo, che chiaramente vuole essere
interpretato ad un livello molto meno superficiale di quello prettamente
immediato, la linea seguita dalla band, una sperimentazione assoluta che però
molto di originale non ha, diviene chiaramente perdente di fronte all’evidenza
dei rimandi ai leaders della scena industrial-electro ed a coloro che ne hanno
mescolato i connotati col metal. Lo stile degli Ensoph anno Domini 2004
è infatti un miscuglio di concettuale e commerciale, con uno squilibrio
fortemente accentuato verso quest’ultimo; ma il passo è molto più lungo della
gamba, e se le influenze musicali del gruppo sono chiare, ancora più aspro è
il contrasto qualitativo con esse.
Tutto si fonda su riffs di chitarra semplici., ricoperti da un tappeto di
arrangiamenti elettronici basati sull’uso di un flauto inquietante, ma solo per
quanto stona nel contesto; pezzi come Jaldabaoth at the Spring of Time
ne risultano rovinati, con il pesante contributo di una produzione che su questo
materiale non può che definirsi malriuscita, per la sua incapacità di ripulire
i suoni ed enfatizzare i particolari. Particolari che del resto ci sono e
costituiscono una parte importante nell’economia del songwriting: Sophia’s
Fall, pezzo immediato, ha degli spunti interessantissimi, così come la
moonspelliana Sun of the liar, ma tutto si perde nel calderone di
un prodotto troppo, troppo amatoriale per poter essere quello che si prefigge; e
non serve neanche un remix di Bruno Kramm ad alzarne le quotazioni.
Senza contare l’originalità assolutamente latente di ogni singola idea: The
Kovenant e Sopor Aeternus sono due presenze molto meno impalpabili di
quanto necessiterebbe lungo tutta la tracklist, con il vertice nelle vocals di Nicholas,
assolutamente derivative.
Insomma, duole essere duri anche a fronte di pareri che sento spesso molto
positivi, nei loro confronti: ma a rigor di logica l’unico pensiero che posso
esprimere, rivolto a chi legge, è il detto “Don’t mistake lack of talent for genius!”.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. Jaldabaoth At The Spring Of Time
2. In The Flesh ( Visione Della Passione)
3. Sophia´s Fall
4. Faith Defeat
5. Salmo A Nessuno
6. White Lamb Seducer (40 Days & 40 Nights)
7. Lies Of The Mirror Which Lies Not
8. Sun Of The Liar
9. Proudly Divine ( Ink & Mirrors & Empty Tombs)
10. Sophia´s Fall ( Sophies Welt Remix)