Recensione: Order of Chaos
Ordine del Caos. L’antitesi per eccellenza che raffigura una nuova sorta di governo degli uomini i cui termini chiave sono: adorazione, sottomissione, dissoluzione e disintegrazione. È questo il pericolo mortale che emerge da “Order of Chaos”, nuovo nonché secondo disco in carriera degli australiani Descent. Pericolo di perdere i propri riferimenti, le proprie certezze, le proprie peculiarità, per essere de-molecolarizzati nel nulla più assoluto. Cioè, l’acme del caos.
L’album dura solamente ventinove minuti ma, come insegna la Storia del metal estremo, non è così importante quanto ma come. E i Descent, dando continuità alle loro influenze black metal / hardcore, badano molto al come, realizzando difatti un sound mostruoso, terremotante, violentissimo. Da guerra termonucleare. Non capita spesso di ascoltare un’aberrazione sonora di tal genere, se non nei primi lavori degli Anaal Nathrakh, ove la brutalità sonora assume i termini di un attacco frontale senza precedenti.
Gli otto brani che danno vita al disco hanno titoli brevi, composti da una sola parola, quasi a materializzare delle dolorosissime rasoiate tanto brevi quanto profonde. Una successione di mazzate sulla schiena che abbatterebbero anche un pachiderma. L’esaltazione della forza bruta, l’Impero della trance da hyper-speed. Quando, cioè, si attiva uno stato di alterazione mentale che spazza via i legami elettrici fra i neuroni. Provocando in tal modo spaventose, orrorifiche allucinazioni.
Certo, lo stile non è innovativo. Il quintetto di Brisbane non esplora poi tanto, in ordine a nuove idee, nuovi intenti compositivi. No. Il suo unico scopo è quello di annichilire, radere al suolo, distruggere tutto e tutti (‘Tempest’).
A cominciare da Anthony Oliver, frontman posseduto da un’energia inspiegabile per come tratta la propria ugola, raschiandola con folli harsh vocals e bestiali growling. Brendan Auld e Josh Kane cuciono riff convulsi, aggrovigliati fra loro, dal pungente odore di old school death metal, trafiggendoli da parte a parte con improvvisi, chirurgici assoli. Una montagna inespugnabile le cui rocce altro non sono che granitici accordi (‘Filth’), orlata da chilometri di filo spinato come se per raggiungerne la vetta fosse necessario un atto di supremo automasochismo mentale. Jim Dandy e Kingsley Sugden chiudono il cerchio. Il primo rombando in sottofondo facendo cozzare le corde del suo strumento come il rombo delle zolle tettoniche in movimento tra loro. Il secondo, scatenando un putiferio di BTM tale da raggiungere valori da stordimento totale, sfondando come un missile senza controllo l’impossibile barriera dei blast-beats (‘Safe’).
In mezzo a tutto questo fragore, per ultima compare ‘Despotic’, improbabile suite che condensa in sé la filosofia musicale dei Nostri. Un credo votato alla dissoluzione organica più totale, a cominciare, ovviamente, dalle membrane timpaniche. Ma, anche, a risvegliare un mood cupo, tetro, oscuro. Il break centrale, rallentato, difatti, dà vita a vivide emozioni che disegnano un Mondo in disfacimento. Un Mondo arido, ricoperto di sabbia nera, i cui oceani abissali contano, nei loro fondi, gli scheletri di una specie in estinzione: quella umana.
È palese che, dopo la disanima appena terminata, “Order of Chaos” sia un’opera a uso e consumo di pochi, coraggiosi estremisti del metallo più oltranzista. Tuttavia, i Descent sono fedeli al loro credo senza alcun compromesso, nessun tentennamento, nessun ripensamento. Un’attitudine encomiabile, che raffigura il vero valore di chi non segua regole conformiste, imposizioni varie, pressioni psicologiche, forme di governo artistico.
Descent… nell’abisso!
Daniele “dani66” D’Adamo