Recensione: Orvam (A Song For Home)

Di Roberto Gelmi - 30 Maggio 2014 - 13:44
Orvam (A Song For Home)
Band: Need
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Anno: 2014
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85

Terzo studio album (uscito a gennaio) della band ellenica, a detta di alcuni i “Fates Warning greci”, dopo The Wisdom Machine del 2006 e Siamese God del 2009. In passato i Need hanno aperto, in Europa, per gruppi come Deadsoul Tribe, Jon Oliva’s Pain, Symphony X e Threshold, curriculum davvero degno di nota. Nel 2011 partecipano al Sonisphere Festival, edizione che vide come headliner Iron Maiden, Mastodon e Slipknot.
Il combo predilige, infatti, melodie oscure e il lato heavy dei Dream Theater, insieme a un sapiente uso di synth atmosferici e un drumwork accurato, sulla falsa riga del miglior Mark Zonder. Tra le varie influenze dei greci, oltre alle due band statunitensi già citate, come non menzionare, però, anche il metal asfissiante di Nevermore, Isis e alcune sonorità vicine a Pain Of Salvation e Chrome Shift?

Registrato presso i Devasound Studios (Rotting Christ, Septic Flesh, Poltergeist, Inactive Messiah) ad Atene e missato a Chicago da Alan Douches (Mastodon, The Dillinger Escape Plan), Orvam (a Song for Home) è un full-length che farà la gioia dei progster e, più in generale, degli amanti della musica che viene dal cuore. Solo sette brani, di cui due suite (“Entheogen” e la title-track con un toccante outro in greco) e un breve ma stupefacente interludio recitato (“Hotel Oniro”), ma intrisi di pathos e lucido sguardo sulla miseria e la grandezza della vita, in tempi di crisi economica e morale.
Questo suggerisce già la copertina (opera di Dimitris Tsoutsas, che curò anche l’artwork del disco di debutto) tra il grottesco (il volto sembra quello di “Sputafuoco” Bill Turner dei Pirati dei Caraibi) e l’angosciante. L’ascolto di Orvam richiede, altresì, una completa attenzione e predisposizione empatica alla poetica dei Need, che alterna sfuriate metal (con qualche raro growl soffocato), tempi dispari e atmosfere dilatate.

Un breve intro di musica elettronica introduce “Lifeknot”, che parte coraggiosa con un riffing vicino ai migliori Fates Warning e Symphony X. Accenti gustosi, qualche svisata di basso e linee vocali grintose, che si fanno repentinamente delicate in effimere parentesi semiacustiche riflessive: questo in due parole il trademark sui generis dei Need. Non mancano parti in doppia cassa e, al min. 6:00, un assolo di tastiera vicino a quello di Jordan Rudess in “Blind Faith” dei Dream Theater. In sostanza, un opener granitico, non privo di qualche ripetitività, su cui però si glissa volentieri.
Entheogen” (nome di una sostanza che induce “estasi mistiche”) parte dimessa con accordi sospesi. Ci aspettano dieci minuti di progressive pirotecnico, a partire dal drumwork di Stelios, che non teme confronti con mostri sacri come Mike Portnoy e Mark Zonder. Le prime linee vocali intessono una nenia ossessiva dal sapore ancestrale (chi ha detto Indukti?). All’inizio del quarto minuto Ravaya regala un buon assolo con legati sapidi, poi seguono secondi vicini ai Pain Of Salvation e un break con una soave voce femminile. Attorno alle seconda metà del sesto minuto si dipana una parte strumentale orgastica, in seguito tutto si calma e torna la litania iniziale con tanto di bonghi. Scoppiettante anche il nono minuto, mentre gli ultimi secondi fatati, con delay di chitarra semiacustica, chiudono mirabilmente un brano eclettico, con cambi di tempo geniali e un continuo ribaltamento di atmosfere.
Symmetrade” attacca rocciosa, con un riffone vicino agli Everon e i Threshold più tirati. Doppia cassa, armonici a effetto: si respira un’atmosfera oscura nel cantato, che, a metà del quarto minuto, scolora per alcuni istanti in un cupissimo growl soffocante. La parte strumentale ricorda quella di “Constant Motion” dei DT. Da segnalare il break con inserti d’elettronica e tappeto di pianoforte al min. 6:10.
Senza soluzione di continuità inizia “Mother Madness”, su tinte soffuse, tra Shadow Gallery e Dream Theater più intimisti. Un brusco riff à la Nevermore rompe gli indugi e il brano continua su binari thrash non estranei all’identità dei greci. Il refrain fa rifiatare l’ascoltatore, poi trova spazio una sezione dilatata che valorizza Jon V. anche su registri meno aspri. A metà il brano risorge prepotente; gli ultimi sessanta secondi, invece, ripropongono la schizofrenia iniziale, dimidiata tra garbo e ruvidezza.
Construct” ha un intro “robotico” e un riff vicino a quello che apre “Bridges In The Sky” dei Dream Theater; in realtà i Need suonano più cattivi dei newyorkesi, merito soprattutto (ma non solo) della prova graffiante del vocalist. Tra palm-mute e guizzi geniali di pianoforte (min. 3:30) il pezzo incede confermando la maturità raggiunta dagli ellenici. Il bello dei Need, infatti, è la loro imprevedibilità: non sai mai cosa ti aspetta alla fine di una strofa e così a metà del quinto minuto inizia una breve sezione strumentale tra djent, insania meramente prog. e sano sfogo liberatorio.
Hotel Oniro” è un interludio alla monumentale title-track posta in chiusura del platter. Si tratta di un dialogo-sample filosofico (degno di un racconto cechoviano) tra un uomo disilluso e una donna dall’accento francese, i quali s’interrogano con triste sarcasmo sulla noia e l’insensatezza della vita («You look pale, do you feel pain?» «I Feel nothing.») Si toccano anche temi metamusicali, laddove l’uomo chiede alla donna se suona uno strumento e arriva a una dichiarazione d’amore per la musica, la più immediata delle arti (anzitutto per gli esecutori). La mente che si svuota mentre si percorre la tastiera di una chitarra ha del divino e lascia appagato l’essere umano, che però non smette di chiedersi «How can you keep living when every day is always the same?», quesito che apre l’interludio e lo chiude, venendo ripetuto all’unisono dai due interlocutori nel finale.
Un tentativo di risposta a tale dilemma è l’ambiziosa “Orvam”, dall’intro onirico, con campane e una chitarra elettrica a dettare una melodia desultoria, che sfocia in un riff più che memorabile per abbellimenti, subito ripetuto su ottave basse e thrash. Tutto in poche decine di secondi, tra stacchi, riprese e voce in falsetto. Nell’immediato prosieguo non mancano sfuriate rabbiose con un pianoforte oscuro. Al quinto minuto, una sezione strumentale coinvolgente, con relativo assolo chitarristico, sfuma in un sample con sottofondo di braci. Una voce filtrata recita un inquietante monito «You’ll be hollowed», in momenti di depressione totale. All’ottavo minuto trova spazio una breve parte a cappella e poi si ripresenta il main-theme iniziale. Dopo qualche growl e inserti disturbanti d’elettronica, su trame sonore volutamente ridondanti, a metà del decimo minuto un improvviso cambio di tempo e le atmosfere si capovolgono: si passa a una gioiosità insperata. Sembra di essere in un album prog. rock (incredibile dictu!) e, al contempo, in un platter di Devin Townsend: i Need stupiscono tenendo il “vino buono” alla fine dell’album. I ritmi si fanno più sincopati, le linee di basso danno incisività e l’affiatamento dei membri della band è mirabile. Al min. 13:10 ritorna il bel riff ornato iniziale, seguito da una sezione di sollazzo puro, con campane à la Blind Guardian. Gli ultimi due minuti, infine, sono una delle sorprese più pregevoli dell’album e raggiungono vette di poesia ardita. Su un tappeto di pianoforte viene recitato un testo in greco, che pare riassumere il pessimismo dell’album, sublimandolo in una lirica baudelairiana:

Sono la torre e il profumo… e nelle mie vene scorre acqua piovana.
Sono la bomba dell’eco e sboccio ogni autunno.
Sono gambe radicate nel mare dell’immobilità.
Sono in marcia.
Sono io, per sempre, il dio cieco e immacolato.
Protesto contro i predoni per non capacitarmi che in realtà non esisto.
Sono il tre, prima del due.
Sono l’infezione del fegato, la fine prima del viaggio.
Annusa il mio colore se puoi…
Orvam

Se ancora non conoscete i Need, correte ai ripari: in seguito avrete letteralmente “bisogno” di una musica così ricca di pathos!

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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