Recensione: Őszelő
Dopo “Nyárutó“(2018) arriva quest’anno “Őszelő ” l’undicesimo album dei Dalriada. Soffia un’energia accompagnata dalla costante evoluzione del sound che “di mese in mese” srotola le sue visioni sulla storia e sulla cultura del mondo ungherese. Questa è la versione proposta nel nuovo full-lenght.
“Őszelő” significa “Settembre” ma pure “mietitore” ed istintivamente può evocare sia la raffigurazione classica della morte con falce che quella del contadino in fase di raccolta dei cereali maturi. E’ un periodo che ricorda anche la vendemmia, l’avanzare dell’autunno e con esso il calare delle ore di luce e l’avvicinarsi del freddo, elementi espressi dalle calde tinte terrose e dalla luce bianco-neve dell’artwork. Contestualizzando certe associazioni visive alla musica, abbiamo qui grossomodo una dinamica tendenza progressiva riscontrata in “Áldás” e “Nyárutó” trainata da uno spirito diretto e corpulento in sintonia con “Napisten Hava”. Questa solidità si spinge però ben oltre, attraversando una scalpitante ed’ inedita rivestitura dalle tendenze metalcore più o meno evidenti, assecondata dalla precisa e terremotante batteria. Le chitarre elettriche ed acustiche si lanciano in assoli virtuosi quando necessario, così come in suggestioni agresti (enfatizzate dagli strumenti folk) mentre il comparto atmosferico richiama all’occorrenza l’aura gelida di “Jégbontó” ed a tratti quella dei Dimmu Borgir di “Enthroned Darkness Triumphant”.
In questo senso una folata giunge dalla title-track, un convincente incrocio tra un brano folk acustico, istinti luminosi e scenografie minacciose, a volte doom. Il pezzo ci indirizza verso una leggenda sul motivo grafico dell’albero della vita/albero del mondo che può essere trovato in molti racconti ungheresi ed il destino del quale è quello del mondo.
I pezzi più “freddi” del disco si potrebbero tuttavia definire “Földanya” ed “Őszi ének”, specie il primo, che tra l’altro presenta la novità di alcune sezioni corali puramente femminili, affiancati a quelli di sezioni miste. E come il significato di “madre natura” il brano sfoggia una femminilità ed una tensione spirituale pagana imperniate in una sorta di affascinante crescendo ancestrale dolce e contemporaneamente selvaggio, mostrando un quid tra i più diretti, podio che nell’album aspetta ad “Örökség”. Il brano è una riscrittura del singolo “Csillagok dala” (2018) riproposta qui in uno squisito arrangiamento in bilico tra hard rock e power dall’appeal radiofonico cantato prevalentemente da Laura e, ad estrema sorpresa, nella parte centrale spunta nitida una voce bianca. Probabilmente si tratta di Ficzek András Ferenc citato nei credits, magari il figlio del chitarrista/cantante Ficzek András, un po’ come Masha Scream ha incluso i suoi figli in alcuni album degli Arkona o come decadi prima fece Nico nel suo “Desert Shore”. Una scelta che non stona ed anzi, l’ospite ha un timbro gradevolissimo ed offre una profondità ulteriore al testo che riguarda il passato, il presente ed il futuro di un mondo lasciato poi ai discendenti. La stessa voce si sente cantare piuttosto distintamente – anche se assieme ad altri – tra i cori della versione acustica di “Ezer élet, ezer csillag”, splendido nel suo romanticismo fraterno mentre l’iniziale versione elettrica – una sorta di parallelismo con “Zivatar” e “Fele Zivatar” presenti in Áldás – potrebbe essere forse il migliore pezzo del disco, in quanto travolge con la sua fierezza unitaria ed epica progressione. La canzone più furente di tutte è però l’eccellente “Dúvad”, “bestia ferina”, ispirata alla figura del fuorilegge e bandito Sándor Rósza circa il suo coinvolgimento nella Rivoluzione ungherese del 1848. Nonostante l’assenza di growl e scream e la struttura quasi distesa, il brano incanta ponendosi a raffinata scheggia capitanata da András, mentre il tappeto di pianoforte, gli assoli di tastiere ed i commoventi cori assecondano una struggente drammaticità. Parte all’assalto anche la già citata “Őszi ének”,”canto d’autunno” pezzo maestoso che fa perlopiù leva su emozioni nostalgiche, in un abbraccio dalle cadenze quasi marziali. Analogamente a “Földanya” presenta efficaci scream di Laura Binder ma quello che colpisce è la scelta melodica dei cori, spettacolari soprattutto quelli posti in chiusura del brano.
Non ispiratissima invece la chiusura di “Betyár-altató” che per il resto sarebbe un brano assolutamente memorabile, specie per l’esplosivo momento death/core trainato da Andràs e dalla batteria mozzafiato, definibile uno dei punti più alti non solo dei Nostri ma di una bella fetta di metal odierno.
“Huszáros” e “Rákóczi zászlaja” nonostante siano dei pezzi assai validi, hanno generalmente motivi e strutture più comuni, specie il primo.
Con “Őszelő” i Dalriada ci propongono un disco generalmente fedele a quanto fatto in precedenza, pur introducendo un modo diverso di esprimersi, che fondamentalmente ci piace parecchio. Accompagnati dal gruppo folk Fajkusz Banda e da altri ospiti adibiti ad ulteriori strumenti elettrici, i Nostri hanno confezionato un lavoro di buonissima fattura – seppur in qualche frangente un po’ di maniera – che si rivela in tutte le sue sfaccettature piano piano con gli ascolti. La produzione è migliorata rispetto alle precedenti uscite, potente senza mai risultare inutilmente pompata ed “artificiale”. Insomma, “Őszelő” è un ulteriore conferma dell’identità decisa ed originale degli ungheresi, obbligatorio per i fan ma può comunque rappresentare un grandissimo ascolto anche per i neofiti del gruppo. Attenderemo “Ottobre”.
Elisa “SoulMysteries” Tonini