Recensione: Ótta
Pazzi, brillanti. Ma talvolta esagerati, quasi fuori luogo. A tratti persino fastidiosi. In una parola geniali. I Sólstafir sono una delle poche band dell’intero panorama metal odierno a poter essere definiti tali. Sì perché, li si ami o li si odi, questi quattro islandesi si sono sempre distinti per dischi che, a modo loro, hanno lasciato un’impronta indelebile nella scena musicale.
La storia del quartetto ha inizio nel lontano 1995. Dopo una gavetta di sette anni segnati da tre demo, un EP e uno split album, il combo arriva a pubblicare il primo disco, intitolato ‘Í Blóði og Anda’, nel 2002 sotto l’egidia della Ars Metalli. L’album, nonostante qualche richiamo ai big della scena estrema, mette subito in chiaro le cose: i Sólstafir non sono di certo intenzionati a diventare uno dei tanti gruppi fotocopia mediocri che ciclicamente infestano il mercato discografico.
Tempo tre anni ed ecco che la band torna a farsi sentire con quel piccolo gioiello chiamato ‘Masterpiece of Bitterness’. La strada stavolta si fa più tortuosa e, sebbene il metal di matrice estrema rimanga la solida base da cui partire, i Sólstafir decidono di cambiare direzione, costruendo brani che concettualmente, pur mantenendo viva l’epicità, si avvicinano per certi versi all’universo progressive. Canzoni lunghe da strutture estremamente articolate si compongono di passaggi ora più aspri, ora più evocativi e carichi di pàthos.
Dopo un disco come ‘Köld’, per certi versi fondamentale nell’evoluzione sonora dei nostri-, è con ‘Svartir Sandar’ che il gruppo riesce a compiere il tanto agognato ‘salto di qualità’, passando sotto le ali protettrici di una label importante come la Season of Mist. L’opera, anche questa volta, raccoglie il plauso di critica e pubblico che, per la prima volta, sembra accorgersi veramente di questi ‘piccoli giganti’ della musica metal. Il platter, ormai lontano anni luce dalle sonorità black e viking degli esordi, avvicina alla band una nuova tipologia di pubblico, più abituata a sonorità accomunabili al depressive rock, il desert rock, buona parte del mondo -post e, non ultimo, il progressive.
Arriviamo ai giorni nostri. 29 Agosto 2014: dopo un silenzio di due anni esce ‘Ottá’, lavoro che, neanche a dirlo, farà parlare molto di sé.
Musicalmente l’ultimo nato in casa Sólstafir prosegue a grandi linee il percorso tracciato dal suo predecessore, ampliando però ancor di più gli orizzonti dei nostri. A differenza del passato, infatti, i richiami alla musica folkloristica islandese sono ancor più presenti: appaiono infatti evidentissime le similitudini con artisti arcinoti quali Ólafur Arnalds, Sigur Ros e Mum. Naturalmente tali somiglianze riguardano solamente le atmosfere, le sensazioni che gli otto brani sanno regalare. Sì perché, a conti fatti, il combo non rinnega comunque le sue radici metal e ciò si evince in primis da un riffing che, sebbene appaia più ‘liquido’ rispetto agli esordi, continua a presentare una certa ruvidezza che non mancherà di appassionare anche l’ascoltatore dal cuore più duro.
Nonostante la grande complessità ideologica su cui i brani vengono costruiti, l’opera riesce ad essere facilmente fruibile: le canzoni si lasciano seguire facilmente, senza mai risultare inutilmente sovrastrutturate o cervellotiche. Ed è proprio questo il punto vincente di un disco che, altrimenti, avrebbe fallito il suo obiettivo principale: emozionare l’ascoltatore.
La grande attenzione riservata in fase di arrangiamento sì come il grande gusto in fase compositiva si evincono già dall’introduttiva ‘Lágnætti’. Il brano parte calmo, rilassante, quasi fosse avvolto in un’atmosfera ovattata. Le note di piano accompagnano con delicatezza la voce impalpabile di un Aðalbjörn Tryggvason autore di una prova globalmente eccellente. Il primo episodio sa subito coinvolgere: i passaggi più rocciosi si dimostrano capaci di mantenere vive le atmosfere al limite della psichedelia create dalle linee di chitarra. Proprio il sovracitato Aðalbjörn Tryggvason è per di più abile nel passare con grande facilità da tonalità delicate e pulite ad altre più aspre e sporcate da un cantato graffiato evocativo eseguito con grande perizia.
Andando avanti, più ci si addentra nel disco, più diventa impossibile riuscire a citare un brano piuttosto che un altro: ciascun pezzo racchiude in sé un piccolo universo, che merita di essere scoperto poco per volta. Ecco dunque che verrete letteralmente travolti dalle atmosfere folk, quasi bucoliche, della bellissima title-track, piuttosto che dai brulli paesagi dipinti nella splendida ‘Rismal’. Allo stesso modo risulta pressoché impossibile rimanere impassibili davanti alla passionalità carnale di una ‘Dagmal’, a parere di chi scrive il pezzo migliore del lotto. E più si va avanti, più l’impresa di riuscirsi a distaccare da questo piccolo gioiello made in Iceland diventa ardua.
Nulla da dire, poi, sull’ottima qualità sonora di cui può vantarsi questo ‘Ottá‘: la Season of Mist deve essersi spesa molto, giacché i suoni paiono perfetti non tanto per pulizia, quanto più per il calzare alla perfezione la filosofia che giace dietro questo disco. I suoni iper patinati e ultralaccati tipici di tante uscite odierne sono banditi, a favore di qualcosa di più reale, che contribuisce a rendere ancor più magica l’atmosfera che si respira durante l’ascolto.
Assolutamente nulla da ricriminare anche per quel che riguarda l’aspetto estetico dell’opera: la copertina, dai toni grigi, neri e bianchi, ben si adatta al mood generale del disco.
E’ dunque ‘Ottá’ un disco perfetto? Bene o male sì, nonostante qualcuno possa recriminare un’eccessiva vicinanza alla scena folk/post-rock islandese: chiudendo gli occhi, infatti, talvolta le somiglianze con i già citati Sigur Ros e simili pare quasi eccessiva. Ma a parte ciò i ragazzi meritano un plauso per l’eleganza, la maturità e la brillantezza compositiva messe in campo anche questa volta. I Sólstafir amano spiazzare, ammaliare ed emozionare e anche in questa sede, permettetecelo, ci sono riusciti pienamente. Promossi a pieni voti.
Emanuele Calderone
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