Recensione: OU812

Di Abbadon - 4 Luglio 2004 - 0:00
OU812
Band: Van Halen
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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74

1988, sono passati dieci anni esatti dalla prima uscita dei Van Halen. Molte cose sono accadute da allora, milioni di dischi venduti, successo, fama, litigi, il dolorosissimo split da David Lee Roth e la conseguente scelta di puntare su Sammy Hagar, il cambio di stile. Per festeggiare questo decimo anniversario la band mette sul mercato il suo ottavo disco in studio, il secondo con Sammy Hagar alla voce, OU812. Il prodotto, che conferma se mai ce ne fosse bisogno il cambio di tendenza del combo rispetto all’ancora recente passato, è forse quello, paradossalmente ancora più rispetto a 1984 e all’esordio, che maggiormente consacra il combo stesso, specialmente alla vista dei non addetti ai lavori. Non fatevi abbindolare dal non esagerato numero di copie vendute (comunque abbondantemente oltre le 4 milioni), grazie a ou812 scoppiò più che mai, o comunque si accentuò, la Van Halen mania, che contaminava tantissima gente anche estranea al movimento strettamente rock. Tutta questa popolarità, a confermare il periodo magico (per i media) della band, venne accentuata dalla praticamente scontata partecipazione da Headliner all’allora attesissimo e magico Monsters of Rock, davanti a Scorpions, Dokken, Metallica e altra validissima gente. Devo dire che tutto ciò non mi trova molto d’accordo. Preciso meglio : Io sono strafelice che i Van Halen abbiano avuto tutta questa fama e questo successo perché è ampiamente meritato, dico solamente che essa sarebbe potuta sublimare con ben altro disco, in quanto non considero Ou812 un granchè, o perlomeno un granchè per il livello di chi suona. Viene infatti portata avanti a gonfie vele quella sterzata che, già presente su 1984, si era nettamente incrementata nel corso degli anni. Se ci può star bene il cambiamento delle tematiche delle song, è proprio il modo con cui le musiche sono state scritte e proposte che in alcuni casi mi lascia l’amaro in bocca. Se in 5150 vi era infatti ancora qualcosa dei vecchi Van Halen (andatevi a sentire come diavolo suona Eddie su quel disco), adesso quel poco rimasto viene ulteriormente smorzato. I pezzi veloci e scanzonati del passato vengono in gran parte abbandonati in favore di mid tempo da sonorità piuttosto chiuse e ovattate, con anche occhiate al movimento Aor. Non sto dicendo che si tratta di un pessimo album, la tecnica strumentale è notevole (e come potrebbe non esserlo) e il cantato è più che dignitoso, tuttavia tanti fan della vecchia guardia o potenziali leve che conoscono solo l’alba dei Van Halen potrebbero rimanere veramente delusi. Per essere del tutto sinceri si parte bene, con l’opener “Mine all Mine” (curiosità : sul retro del disco le tracce sono in ordine alfabetico, se volete quello vero dovete guardare il booklet), buona opener, controllata eppure arzilla, dove la quasi totale assenza di chitarra (c’è solo l’assolo, quasi una bestemmia per le potenzialità di questa band) viene compensata da un preciso lavoro di elettronica. Da segnalare una buona prova di Alex dietro le pelli e un Hagar discreto, sebbene sembri sempre controllato e poco voglioso di uscire dalle righe, come invece avrebbe secondo me dovuto e potuto fare. Molto buona anche la seguente “When it’s Love”, lento poco hard rock, che anzi strizza non poco l’occhio all’Aor. Nonostante questo sia uno stupro alle origini della band, bisogna dare atto alla bontà della composizione, il ritornello cantato in coro è trascinante e dolce. Anche qui poca chitarra, ma forse se ne sente meno il bisogno rispetto al precedente brano. Grande Sammy che si riconferma pure nella terza “A.F.U. (Naturally Wired)”, probabilmente la vera hit, con quella appena passata, di tutto l’album (anche se io preferisco la futura Source of Infection).  Qui lo stile Van Halen classico è molto più delineato, con una eccellente 6 corde, finalmente ai livelli ai quali siamo abituati, a produrre un più che buon riff portante. Anche l’assolo di questo mid tempo è fatto davvero bene e in definitiva, seppur con sonorità parzialmente taroccate dai synth, sembra di sentire un lavoro che non sarebbe stato male in un prodotto di qualche anno prima, magari con un po’ più di anonimato complessivo. L’album, che finora per quanto strano si è difeso bene, scade un po’ con “Cabo Wabo”, canzone a mio avviso senza capo ne coda. Anzi, a dire il vero il capo ce l’ha perché l’attacco del lento mi intriga molto, con quella chitarra oscura e col basso a darle manforte, tuttavia a lungo andare è innegabile che ci si stufa. Il ritornello corale, che finora aveva funzionato bene, stavolta delude, forse perché non molto inerente al resto della song. Vabbè andiamo avanti. Ancora rock pirotecnico (ancora… forse è la prima song davvero pirotecnica) con la velocissima “Source of Infection”, traccia che fa del tecnicismo e della scanzonaggine il suo punto di forza, e che si rifà, a buone linee, ad una perla quale “Hot for Teacher”. Sebbene non sia la song che ha fatto maggior successo (come già detto sono state When it’s love e AFU), ripeto che si tratta della mia preferita, il che non guasta (a me, è forse tutt’ora l’unica track dell’album che riesco a sentire in loop). Seconda strizzata a musiche decisamente più calme e soavi (dopo quella di “When it’s love”) con “Feels so good”, che ricalca a grandi linee lo stesso discorso per il componimento citato fra parentesi. Non la descriverò ulteriormente, andate a leggere cosa penso di When it’s love, la stessa cosa è qui, con però minore appeal. Una discreta chitarra classica apre la settima “Finish What you Started”, che se uno ascoltatore sentisse separatamente mai e poi mai penserebbe sia dei Van Halen. Dai sapori piuttosto country, sempre grazie alla chitarra, il pezzo scade grazie ad una gran ripetitività e ad una voce che, secondo me, per nulla si intona, se non a tratti, con lo strumento suonato. Quindi boccio un progetto interessante ma riuscito solo a metà. Dopo una traccia dal muro sonoro tutt’altro che spesso arriva una pompa magna, che introduce maestosamente “Black And Blue”. Peccato che di maestoso ci sia solo quello, perché la track davvero non riesco a capirla. Sembra quasi un insieme di suoni messo così per metterli. Se anche questo era un esperimento, dichiaro dunque fallito anch’esso (l’unica cosa che si salva sono i cori, che accompagnano però un suonato secondo me scadente). A tirar su un prodotto che ultimamente ha perso parecchi punti ci pensa il lavoro di Eddie su “Sucker in a 3 Piece” , che si produce in un ottimo assolo iniziale e in un solido riff, che varia di velocità a intervalli regolari. Il volume è piuttosto controllato, ma la track nel compenso è un ottimo colpo di coda per un disco che vede da descrivere ancora solamente “A apolitical Blues”, appunto un blues coverizzato (l’originale è di Lowell George”) che se da una parte lascia un certo gusto retrò, dall’altra, soprattutto per i meno amanti di questo genere musicale, fa cascare le braccia. Io propendo per la prima parte, ma non tutti sono così. Cavoli che disco strano… a tratti eccellente e che rimembra vecchie glorie, a tratti davvero inascoltabile. Non so se consigliarlo o meno, certo è che io, nell’era Hagar, preferisco il precedente 5150 e forse pure il successivo “F.U.C.K”. Dategli un ascolto va, visto che oggettivamente siamo a livelli più che discreti, seppur lontani da quelli del pieno potenziale della band. Sentitelo magari prima di acquistarlo, in separata sede, può essere che vi piaccia, in caso contrario non prendevela con me.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

1) Mine all mine
2) When it’s love
3) A.F.U (naturally wired)
4) Cabo Wabo
5) Source of infection
6) Feels so Good
7) Finish what ya started
8) Black and blue
9) Sucker in a 3 piece
10) A apolitical Blues

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