Recensione: Our Endless War
Non accenna a placarsi la furia devastatrice dei Re del deathcore statunitense, i Whitechapel. A due anni dal full-length omonimo giunge sugli scaffali dei negozi di musica “Our Endless War”, via Metal Blade Records, quinto lavoro di lunga durata in studio di una carriera cominciata solo otto fa.
Una fecondità che non ha alterato in alcun modo il livello tecnico/artistico elevatissimo che la band di Knoxville ha mostrato di avere sin dal debut-album “The Somatic Defilement” (2007). Anzi, al contrario, lavoro dopo lavoro c’è sempre stato un passo in avanti, uno step evolutivo che ha via via trasformato l’originale, purissimo deathcore in qualcosa di più complesso, più completo in tutti i sensi.
Qualcosa che altri non è che death metal, inteso nella sua accezione più moderna possibile del termine. L’introduzione, per esempio, del concetto di ‘atmospheric’ in “Our Endless War”, ha reso più intenso e profondo il sound tipico del ‘semplice’ deathcore. Portando quest’ultimo oltre i limiti disegnati dai propri dettami fondamentali per dar luogo, così, a quel death che può accontentare anche i puristi del genere medesimo, seppur ricchissimo di dettagli avanzati.
Che in “Our Endless War” ci sia qualcosa in più rispetto al passato si comprende sin dall’inizio, con l’intro “Rise”, brano strumentale dall’incedere marziale, assai dolce e malinconico. Il cui stupendo leitmotiv sarà ripreso nel chorus dalla fenomenale title-track, vero bombardamento nucleare in cui l’aggressione totale operata dall’ugola di Phil Bozeman pone quest’ultimo sulla vetta dei cantanti del genere. Malgrado il mostruoso screaming/growling eruttato dai suoi polmoni, Bozeman riesce – quasi incredibilmente – a modulare sempre le proprie linee vocali, contribuendo efficacemente a differenziare i vari brani. La compattezza e poliedricità che solo tre chitarre, se ben amalgamate, possono regalare al suono conducono all’innalzamento di un ‘wall of sound’ agghiacciante per potenza, magnetismo, perfezione costruttiva. Se poi, alle asce, si aggiunge il basso di Gabe Crisp che fa tutto fuorché seguirle pedissequamente, il risultato complessivo è ciclopico. Ma, attenzione, senza mostrare mai nemmeno un decimo di secondo d’indecisione o imprecisione per via del lavoro cronometrico di Ben Harclerode, come si può ben constatare nei terrificanti cambi di tempo in accelerazione verso i blast-beats di “The Saw Is The Law”. Vero e proprio cubo di marmo posato sulla gabbia toracica quando, come esige la foggia musicale, si deve rallentare in direzione degli scalpitanti stop’n’go. E, a proposito di sega, è presumibile che rimanga poco d’intatto dello scheletro umano dopo l’attacco dell’incredibile, poderoso, demolitore riff di “Mono”. Song in cui fanno capolino gli inserti atmosferici più su richiamati, ammantando il tutto con un tono piuttosto tetro, anche se il ritmo abbatterebbe con le sue bordate di energia cinetica anche una portaerei.
“Let Me Burn” riporta “Our Endless War” sul fondo degli abissi oceanici in virtù di un incipit ove i breakdown tolgono il respiro. Breakdown particolarmente massicci e opprimenti, ipnoticamente lenti. Intermezzi teoricamente ‘elementari’ che, però, grazie alla maestria dei Whitechapel, assumono valore assoluto e sanno di ‘quel qualcosa in più’ che non è dato assaggiare altrove. C’è pure un richiamo al cyberspazio con “Worship The Digital Age”, altra mostruosa mazzata sulla schiena. Spaventosa nell’aggressività totale e raggelante dell’interpretazione inumana di Bozeman. Il mood cupo e freddo s’insinua fra le trame di “How Times Have Changed”, rinnovando la volontà del sestetto americano di osare qualcosa in più oltre all’ordinario. Un umore inquietante scandito da accordi di chitarra acustica che fa da inizio a “Psychopathy”. Il successivo riffing, come del resto ci si poteva attendere dal titolo, rende concreta la sensazione di ‘scavo’ della psiche umana, operazione aiutata da un tiratissimo solo della sei corde utilizzato a mo’ di trapano. “Blacked Out” spacca tutto con i suoi fulminei cambi di tempo, ma il refrain s’infila nelle parti più buie del sound giungendo a lambire le tonalità del black metal. Manifestando ancora una volta, così facendo, la voglia di incunearsi al di sotto della mera forza bruta. Come mostra la lunga e conclusiva “Diggs Road”, riuscito tentativo di articolare, pure con l’inserimento d’intagli melodici, l’andamento di uno stile altrimenti scontato. E che, così facendo, certamente non solo per questo episodio finale, diventa unico.
“Our Endless War”: dieci canzoni memorabili, trentotto minuti di musica senza difetti. Whitechapel: semplicemente fantastici.
Daniele “dani66” D’Adamo
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