Recensione: Our sins our cross
Un vecchio proverbio dice che “non sempre si può aver tutto nella vita”, e così a volta capita che, nonostante la nostra buona fede ed il duro lavoro svolto in tutti questi mesi, il più delle volte veniamo snobbati e denigrati da chi, pagato dalle case discografiche per promozionare i propri prodotti sul territorio italiano, si eleva a giudice supremo, condannandoci all’oblio senza una spiegazione più che plausibile.
Non è per fare il polemico a tutti i costi, anche se a volte mi riesce bene, ma il problema è che per tenervi informati sulle uscite discografiche, almeno quelle che contano, dobbiamo mettere le mani al nostro portafoglio scarno ed asciutto, e sborsare somme astronomiche per le nostre sempre più ristrette finanze economiche.
Chiusa la parentesi polemica passiamo a questo disco, e che disco ragazzi!!!! Non mi sono ancora ripreso dallo sbalorditivo come back dei nostri Dark Quarterer, che un altro manipolo di “vecchietti” Doc torna a scuotere le mie giornate autunnali sempre più tristi e grigie.
Non so per quanti di voi che stanno leggendo questa recensione, il nome di Bobby Rondinelli sia familiare, ma comunque vi rinfresco la memoria ricordandovi che il nostro amico ha avuto l’onore di essere il batterista degli immensi Black Sabbath di metà carriera, nonché di aver condiviso le altrui fortune delle line up di Quiet Riot, Aereosmith, Rainbow, Doro ed ultimamente con i Blue Oyster Cult. Collaborazioni illustri dunque, per uno dei drummer più quotati sul mercato musicale e dei session man soprattutto, secondo solo al grande Cozy Powel (RIP), il quale, fra una sessione di registrazione ed un tour mondiale, ha trovato il tempo di pubblicare il suo secondo album solista a quasi dieci anni dal magniloquente “Wardance” che vedeva dietro al microfono niente meno che lo scomparso Ray Gillen (Black Sabbath, Badlands).
Anche per questo nuovo capitolo musicale il buon Bobby si è circondato di un manipolo di ospiti illustri a cominciare dai vecchi amici di tante battagli Neil Murray (errata corrige) al basso (Rainbow, Vow Wow, Black Sabbath) nonché il grande vocalist Tony Martin (che spero per voi non abbia bisogno di presentazioni, NDBeppe), per finire con il fratello Teddy Rondinelly della Felix Pappalardi band (apprezzato producer fra l’altro di Cream e Mountain).
Un gran bel disco dicevamo, proprio come quelli che quasi quindici anni fa spopolavano nelle classifiche di vendita di Billboard e riempivano le prime pagine di riviste del calibro di Kerrang e HM. Da allora di anni ne sono passati, eppure tanti, ma la voglia di rockare e di divertirsi che si portano dietro questi giovani cinquantenni, è qualcosa che ti colpisce al cuore come un fendente lasciandoti incollato alla poltrona traccia dopo traccia. Un frizzante hard rock a volte più cadenzato a volte dalle tinte blueseggianti, è quanto scaturisce dall’ascolto di questo “Our cross- our sins”, un disco in grado di rinverdire nei vostri cuori la passione per i classici di Deep Purple, Led Zeppelin e di un certo rock radiofonico seventies style diciamo alla Boston.
La qualità dei musicisti, così come quella delle composizione, è fuori dubbio, anche se a volte, vedi “It’s a lie”, di sicuro il brano più intricato del lotto, la band si lascia prendere un po’ la mano risultando a volte anche noiosetta. Ma è solo un caso sporadico, si perché se “Naughty Dragon” è praticamente un tributo ai Deep Purple più melodici di “Slaves and Masters”, con un inciso di chitarra che sembra fuoriuscire dalle abili mani del man in black per eccellenza, sua maestà Ritchy Blackmoore, la frizzante “The meaning of evil” è un trascinante mid tempo assolutamente devoto al “sabba nero” in grado di lasciare il segno con il suo incidere funesto sottolineato da una tastiera che disegna intrecci goticheggianti.
I brani si alternano senza far denotare alcun cedimento di gusto e feeling, contornati da un buon numero di riffs schiacciasassi elargiti con una spontaneità ed una pulizia di plettrata davvero disarmante, che fanno del buon Teddy il vero mattatore dell’intero platter, un musicista sopraffino che , vivendo all’ombra del fratello più famoso, avrebbe meritato di sicuro tutt’altra fortuna.
Così l’hard rock sostenuto di “Find the one”, fa da contr’altare alla micidiale “Bulls eye” sofferto rock blues d’altri tempi che esplode in un bridge più pezzato, fino alla conclusiva title track che sancisce la fine di un platter gustoso, appetibile per i palati dei die hard fans più intransigenti. Gran bel disco davvero.
Beppe “vecchio rocker” Diana