Recensione: Our Voices Shall Remain
I Throes Of Dawn sono una band finlandese attiva da quasi vent’anni nell’ambito del prog/dark metal d’avanguardia. Rispetto agli esordi, tuttavia, la proposta del gruppo capitanato da Henri Koivula ha subito una notevole evoluzione abbandonando le soluzioni più estreme in favore di un complessivo alleggerimento del sound e dell’incorporo di suggestioni provenienti tanto dallo stoner più minimale quanto dal post rock/metal.
“Our Voices Shall Remain” appare in questo senso non troppo distante da quanto sciorinato dai più noti Sólstafir a partire dal seminale Köld fino ad arrivare al capolavoro Ótta. Sette sole canzoni – poche, in numero, se paragonate a certe tracklist inutilmente elefantiache tipiche dei tempi moderni – ma di durata media piuttosto elevata, paragonabili a dei veri e propri affreschi sonori imperniati sulla grande abilitá da parte dei cinque strumentisti di dilatare i tempi lavorando nel contempo sull’atmosfera e sulle emozioni.
La sezioni vocali sono quantitavamente minoritarie all’interno del generoso minutaggio di brani come l’opener “Mesmerized”, eppur non marginali nell’economia del sound della band finlandese in virtù della grandi capacitá interpretative di Henri Koivula. Rimane d’altro canto evidente come la vera arma letale dei Throes Of Dawn risultino essere le torrenziali sezioni chitarristiche ad opera di Juha Ylikoski e Jani Heinola, spesso e volentieri illuminate da ispiratissimi accenti Gilmour-iani (“One Of Us Is MIssing”) nonché talora coadiuvate e arricchite da pertinenti interventi di pianoforte, keys sintetiche e sassofono, come nella conclusiva“The Black Wreath Of Mind”, favolosa suite dal fortissimo (e benissimo accetto) retrogusto Pink Floyd-iano.
“Our Voices Shall Remain” è un album per palati fini, giocato su sonorità soffuse e atmosfere minimali a metà strada tra incanto e psichedelia, suonato e cantato in maniera assolutamente esemplare e dotato di tuttii requisiti necessari per far breccia tanto nel cuore degli appassionati del rock anni ’70 quanto in quello dei cultori del post rock/metal più evocativo.
Stefano Burini