Recensione: Out Standing In Their Field
Dove è finito il brillante estro che ha dato alla luce dischi di spessore come “High Tension Wires” (1989), “Coast To Coast” (1992), “Structural Damage” (1995), “StressFest” (1996) e “Major Impacts” (2000)?
Che fine ha fatto il gusto che qualificava la varietà compositiva di quello straordinario e ispirato musicista delle sei corde, già nei Dixie Dregs, Deep Purple e Kansas?
Ascoltato quest’ultimo album viene da domandarsi chi mai abbia mosso dita e ondeggiato plettri su tasti e corde della famosa Steve Frankenstein Telecaster!
Quando si parla di Steve Morse si parla di classe e ispirazione nonché di quantità e qualità. E non si porta ad esempio un solo disco riuscito, quello che tante band possono annoverare come capolavoro all’interno della propria discografia, piuttosto che del classico brano dal riff indimenticabile, bensì di un parco album dall’elegante caratura artistica. Allora, alla luce di quanto appena espresso, prestando attenzione ai pezzi di “Out Standing in Their Field”, i conti non tornano per nulla.
Il nuovo full-length è fornito di tutto quello che un supporto digitale moderno deve possedere per non sfigurare sugli scaffali dei negozi: perizia esecutiva, qualità produttiva, varietà di stili abbracciati con dovizia tecnica gli uni agli altri: un prodotto perfettamente confezionato insomma. Ma di cuore “Morsiano” qui ne batte poco!
Ciò che squalifica “Out Standing in Their Field” è l’insipido gusto che per anni i fan non hanno mai assaporato. Ora, ogni brano, ogni ballad, ogni stile approcciato non rappresenta come un tempo né la fantasia musicale del musicista, né l’anima di quello Steve Morse che, per un intero decennio, si è posto come antagonista principe alla triade regale Malmsteen/Satriani/Vai.
Autore di una musica tanto vera quanto originale, oltre che tecnicamente inceccepibile, l’axeman ha sempre ammaliato l’ascoltatore, parlando di se attraverso la poesia narrata dall’affezionata e storica sei corde, così come c’è riuscito ogni chitarrista immortale che si rispetti.
Non che “Out Standing in Their Field” risulti carente del riconoscibile tocco dello statunitense: ogni composizione porta con se parte di quella sua attitudine così marcata che sa di blues, di country, di rock (ballad incluse) e, perché no, anche di progressive rock.
Però, non finiremo mai di ribadire: manca il gusto. Riconoscerete tanta tecnica, troppe auto-citazioni e poca, davvero poca poesia. Il minutaggio scorre via senza che la musica riesca a determinare quelle alchimie in grado di far sognare e che emozionano, come invece accaduto nel corso di questo ventennio.
Forse il mio sarà un giudizio troppo personale dettato dal forte legame affettivo verso la musica del buon Steve, ma devo dire ciò che penso.
Perdonate il dubbio in prima persona: ho forse dato per scontato che artisti così significativi possano sempre produrre qualcosa di straordinariamente vincente? Sono forse stato poco giornalista e troppo fan? Ahimé, il compito del redattore è difficile, ma in questo caso spero che la considerazione personale possa, con umiltà, scavalcare il mero giudizio tecnico.
Ecco forse il mio più grande errore, ma altro non posso sentenziare se non che “Out Standing in Their Field” è il punto più basso mai toccato dalla Steve Morse Band.
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Tracklist:
01. Name Dropping
02. Brink Of The Edge
03. Here and Now and Then
04. Relentless Encroachment
05. John Deere Letter
06. More To The Point
07. Time Junction
08. Unnamed Source
09. Flight Of The Osprey
10. Baroque ‘N Dreams
Line up:
Steve Morse: chitarra
Dave LaRue: basso
Van Romanine: batteria