Recensione: Our Time on Earth
I Compass nascono sullo scorcio del 2017, momento di svolta creativa che vede il cantautore Steve Newman cambiare in parte intenti e andare oltre agli steccati proposti dai Newman, band cui si è dedicato per anni suonando melodic rock. Una sorta di catarsi, quindi, è all’origine della musica contenuta in Our Time On Earth, album progressive che permette al mastermind inglese di spaziare come non mai a livello sonoro, rifuggendo facili soluzioni d’arrangiamento che ne avevo imbalsamato lo stile.
Il nuovo sound ha come punti cardinali numi tutelari di ieri e di oggi, partendo da Pink Floyd e Rush, passando per Saga, It Bites e arrivando (perché no?) ai primi Dream Theater.
Anche l’ostacolo principale alla creazione di una nuova line-up è presto risolto: la ricerca di un cantante con il giusto savoir-faire porta, infatti, a un felice epilogo. Dopo alcune audizioni, Steve Newman entra in contatto con il talentuoso Ben Green e insieme iniziano a impostare le canzoni che verranno. La creatività del fondatore e la capacità tecniche del vocalist si alimentano a vicenda e il risultato è una sintesi d’eccezione. La voce di Green è pulita ma di carattere, ricorda Tommy Karevik e Andy Kuntz, il resto della formazione dei Compass prevede, infine, la presenza di David Bartlett al basso (già turnista con i Newman) e Toni Lakush alla batteria, entrambi musicisti d’indiscussa perizia.
Newman, pure produttore dell’album, spiega in questi termini il significato del titolo dell’uscita:
«We hope that Our Time On Earth will take the listener on a musical and lyrical journey through emotions and the highs and lows of what essentially this collection of songs is about. Our lives, and the path that each individual takes and how their actions affect themselves and people around them. From our first breath to our death, this is our time on earth. »
«Speriamo che Our Time On Earth condurrà l’ascoltatore in un viaggio fatto di suoni e testi, attraverso le emozioni e gli alti e bassi (della vita), tema di cui parla questo insieme di canzoni, ossia le nostre vite e il percorso che ogni persona prende e come le loro azioni influiscono su se stessi e su chi gli è vicino. Dal nostro primo respiro fino al giorno della nostra morte, questo è il nostro tempo sulla terra.»
Temi importanti, perciò, e ottima preparazione musicale, non possiamo che essere predisposti al meglio per l’ascolto del disco. L’ora in compagnia con i Compass inizia con due brani che da soli coprono quasi venti minuti. L’opener “Skies of Fire”, con un sapiente connubio di sonorità neo-prog. e ritmiche col giusto appeal procede, procede in modo davvero godibile e regala subito momenti celestiali. A colpire sono anzitutto le linee vocali, dedite a una ricerca melodica raffinata (non stucchevole), specie nel refrain, dove c’è spazio per un breve cenno di doppia cassa. Siamo vicini, dunque, al sound dei summenzionati Saga e It Bites (volendo anche i troppo sottovalutati Everon) tuttavia con un quid di originalità in più, dovuta alla voce di Ben Green (che vince il confronto con tanti colleghi più blasonati). L’assolo di chitarra al settimo minuto del pezzo è d’applausi (si sentono rimandi allo stile di Steve Vai e di John Petrucci). La prima parte della title-track stranamente occupa la seconda posizione in scaletta e inizia con stilemi floydiani, poi Newman si diverte a suonare un sintetizzatore spigoloso, ma protagonista è sempre l’ugola d’oro di Green: diciamolo pure, ascoltando i Compass anche i fan dell’AOR tout court avranno di che gioire. Ottimi gl’inserti acustici, le parti di pianoforte e la batteria sa quando accelerare: sembra di ascoltare una band rodata, non un album di debutto. La lunghezza della composizione, inoltre, permette frequenti cambi d’atmosfera e ogni break è un concentrato di poesia.
“Caught In A Frame” (curiosamente dura 5:28 min. come “Caught in a web” dei Dream Theater) riesce a far convivere il lato più duro dei Compass con quello empatico. Passabile anche l’uso di filtri vocali, perché fatto in modo oculato. Difficile non provare tanta nostalgia all’avvio di “Neon”, i newyorchesi di Images and Words sembrano dietro l’angolo, ma sono passati quasi trent’anni… Ritroviamo ritmiche ben congeniate e un ritornello di raro trasporto con le giuste backing vocals. Un pezzo composto alla perfezione, senza deliri manieristici, bensì con idee chiare e voglia di emozionare.
Arrivati a metà album, al netto d’inutili pregiudizi, le impressioni non possono che essere molto positive. Non vediamo l’ora di scoprire quali altri melodie ha in serbo il disco, così ci tuffiamo in quella che è la canzone dal titolo più curioso in tracklist. “The Preacher And The Pigeon Feeder” (Il predicatore e l’uomo dei piccioni) ha in sé momenti malinconici (i Porcupine Tree approverebbero di sicuro) e lampi di rivalsa; non è il migliore brano del lotto ma non sfigura come filler. “Another Life Suicide” si salva grazie all’ennesimo refrain ben concepito che valorizza le note alte interpretate da Ben Green, contrappunto naturale alle ritmiche più tirate del platter. L’ultimo quarto d’ora vede susseguirsi la traccia più lunga, “A Warning from History”, e quella più corta, la seconda breve parte della title-track. Della suite segnaliamo a mo’ di epitome due momenti significativi: tra quarto e quinto minuto si articola una sezione strumentale da brividi che proporne un assolo magistrale, sorretto da una linea di basso (semplice e groovy) e una chitarra ritmica rushiana; all’avvio dell’ottavo minuto l’affiatamento della line-up è incredibile e ritorna il paragone con i Dream Theater di “Take the time”. Insomma i Compass funzionano sia con, sia senza la presenza onnipervasiva del vocalist.
Come epilogo “Our Time On Earth Pt II” è il degno coronamento dell’intero album. Una semi-ballad che lascia l’ascoltatore in stato di grazia fino all’ultimo secondo e richiama alla mente i Pain Of Salvation di Remedy Lane, ma pure gli Shadow Gallery della ghost track contenuta in “First Light” (ultimo brano di Legacy).
Our Time on Earth merita l’attenzione di ogni ascoltatore in buona fede. Il sound proposto da Steve Newman & Co. riesce, infatti, ad amalgamare sapientemente sintetizzatori, chitarre elettriche e linee vocali di scuola AOR, tutto con estrema (apparente) facilità. E se non ci sembra di ascoltare un album contemporaneo è perché molti platter messi sul mercato oggi non hanno qualità e si rivelano effimeri. A volte, invece, un disco colpisce a ciel sereno diventando una gemma rara dopo pochi ascolti. Anche nel 2020. Fatelo vostro!