Recensione: Outer Isolation
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“Cento! Gli ha dato cento”! Una decisione impegnativa, certo. Ma ogni tanto bisogna saper rischiare, senza aver paura di fare il passo più lungo della gamba. In fin dei conti, cos’è una recensione se non un parere soggettivo? Questioni inconfutabili a parte, come produzione, preparazione tecnica e poco altro, una recensione è il “gusto” di una persona. Ecco che quindi, nelle prossime righe, c’è la spiegazione della mia decisione di tributare il massimo dei voti a questa band. Vektor.
Un nome che in pochi anni è passato da band emergente a icona di un certo modo di intendere il Thrash. Quello diretto, certo, ma anche (e soprattutto) quello tecnico, “progressivo”, di ampie vedute, mai scontato. Contaminato da diverse influenze perfettamente amalgamate tra di loro. Black Future era una gemma. Grezza. Con questo Outer Isolation i Vektor sono riusciti nella difficilissima impresa di levigare questa gemma nei punti giusti. Il risultato? Sorprendente. Allucinante. Meraviglioso. Non pronosticabile.
Dopo un simile esordio, la domanda più ovvia era: “Considerando che in Black Future ci sono talmente tante soluzioni compositive diverse tra loro… cosa potranno inventarsi di nuovo i Vektor? Dove potranno spingersi? Ma soprattutto, come?”.
Il risultato si chiama Outer Isolation. Ed è uno di quei risultati che lasciano a bocca aperta. Otto canzoni che stravolgono le regole, che fanno vacillare anche le più ferree convinzioni (ma le note musicali sono veramente sette?).
In breve, Outer Isolation è un Black Future spremuto e compresso, riveduto e corretto. Meno prolisso, meno “fine a se stesso” (le virgolette sono d’obbligo), più diretto, incisivo, immediato. In un certo senso, più “Heavy”.
L’opener Cosmic Cortex, con i suoi 10.21 minuti di durata, sembra quindi essere fuori contesto. Solo sulla carta però. Perché basta poco per essere immediatamente proiettati verso uno spazio – tempo completamente diverso dal nostro. In questi dieci minuti c’è talmente tanta carne al fuoco che altri gruppi ci avrebbero tirato fuori un album intero. L’album parte nel migliore dei modi: prima canzone, primo capolavoro. David DiSanto, con onestà, ci avverte: “Cosmic Cortex Will Melt Your Brain!”. E’ esattamente quello che accade, dato che questa canzone ci scioglierà il cervello, ci lascerà a bocca aperta grazie alla sua naturale progressione ritmica tanto complessa quanto fluida.
Redigere il classico “track by track” mi è impossibile: sarebbe una ripetizione continua di aggettivi quali “capolavoro”, “magnifica”, “bellissima” eccetera…
Il trittico seguente (Echoless Chamber, Dying World e Tetrastructural Minds) è da antologia del Technical Thrash Metal. Tutto ciò che serve ed è necessario, lo trovate qui dentro. Ritmiche taglienti come rasoi? Presenti. Velocità folli intervallate da perfetti stacchi melodici ed armonici? Presenti. Utilizzo di accordi dissonanti, quasi “sbagliati” (qualcuno ha detto Voivod?) ma magistralmente incastonati nel songwriting? Presenti. Assoli ispiratissimi e mai banali? Presenti. La lista potrebbe
continuare all’infinito. Il richiamo più evidente a Black Future si chiama Venus Project. Tempi e controtempi si inseguono incessantemente, intervallati da brevi sezioni che strizzano l’occhio al punk (!).
Tempo di prendere fiato? Ma quando mai! Dark Creations, Dead Creators è la canzone più breve del lotto che con quel fantastico assolo posto in chiusura ci traghetta verso FastPaced Society. Evitare di ripetersi sta diventando più difficile del previsto: altra canzone dagli standard qualitativi elevatissimi.
Mai un calo, mai un momento vuoto.
Summa di tutto, la titletrack, Outer Isolation, posta in chiusura, come a voler suggellare un titolo che resterà inciso nella storia. Altro eclatante esempio di crescita artistica: in 8.27 minuti c’è un riuscitissimo riassunto di quanto ascoltato fino ad ora.
Come dicevo, non c’è un’analisi approfondita di ogni singola canzone. Tutte (e dico tutte) sono meritevoli della palma di “migliore”. Questo Outer Isolation è un blocco di granito imperforabile, uno schiacciasassi che non fa prigionieri. Tutti gli ottimi spunti del precedente album sono stati ripresi e migliorati. Il songwriting resta decisamente sopra la media nonostante la durata dei pezzi sia stata compressa. L’avanguardia musicale è sempre ben presente, così come i tratti caratteristici dei Vektor.
Genialità e capacità fuori dal comune al servizio della musica: i virtuosismi e la tecnica abbondano, sono solo stati pensati e strutturati in modo diverso, in modo tale da abbandonare in parte quel lieve “narcisismo” presente in Black Future, dove non era raro imbattersi in prolungati fraseggi tecnici atti si alla musicalità ma anche alla dimostrazione di un bagaglio tecnico invidiabile a tratti fine a se stesso.
Ci sono dischi che hanno creato la storia (Kill ‘Em All: il nostro genere preferito è nato proprio qui, nel 1983). Altri ancora sono stati talmente tanto influenti da dare vita a nuovi ed interi movimenti del Metal (Reign in Blood: quante band Death Metal lo mettono in cima alla lista delle influenze musicali?). I motivi per accaparrarsi il massimo dei voti sono molti. Perché quindi tributare questo onore anche ai Vektor?
Perché questi ragazzi hanno ulteriormente alzato l’asticella del Technical Thrash. Perché è difficile creare qualcosa da zero ma è altrettanto difficile infondere così tanta personalità e qualità nella propria proposta musicale senza essere un “clone” di nessuno. Influenze? Ovviamente. Di tutti i tipi. A cominciare dai classici Watchtower e Voivod, passando per Coroner e Annihilator, terminando con una spruzzata di Destruction nelle parti più veloci, complice anche l’ugola al vetriolo che caratterizza le sonorità Vektoriane.
Parlare di “disco storico” nel 2011 (anno di uscita dell’album in esame) può far sorridere, storcere il naso. Ma come, la storia non è già stata scritta? Ormai i fasti della gloriosa decade non potranno più tornare, no?! No. Questo Outer Isolation è, a modo suo, un disco “storico” già da adesso. Perché d’ora in avanti, chiunque voglia cimentarsi in questo genere musicale, deve fare i conti con i Vektor. Abbiamo a che fare con un nuovo “punto zero”, una meridiana che funge da nuovo metro di paragone per tutti coloro che proveranno a spodestarli dal trono.
“Senza musica la vita sarebbe un errore” (Friedrich Nietzsche, Il Crepuscolo degli Idoli, 1888). Lo sarebbe anche senza i Vektor e senza Outer Isolation.
Andrea “Blitz” Pinazzi (100/100)
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Il difficile rapporto tra thrash metal e mondo moderno, tra il voler scrivere qualcosa di originale senza cadere nella banalità. Siamo negli anni 2000, ormai è già stato scritto tutto, come fai a scrivere ancora qualcosa senza rischiare di copiare grandi dischi che hanno segnato la storia del thrash?
Spesso ci capita di pensare a questo, no? “Ah, ormai dischi come Master Of Puppets e Reign in Blood non torneranno più, ormai….ah, siamo nati nel periodo sbagliato…ormai…”
E poi ti fermi davanti alla vetrina del negozio e osservi la copertina di Outer Isolation. Ti riaffiora il ricordo di Black Future, il loro primo disco, e un barlume di speranza si accende nella tua mente: uhm però, forse non tutto è perduto… Ripensi a quel mix di thrash e speed e quella Forests Of Legend ricca di melodia che si mescola alla voce tagliente di Di Santo e si crea quella sorta di contrasto che ti dà da pensare…e ti rendi conto di quanto quell’album possa averti lasciato meravigliosamente stupito, soprattutto per essere il primo album di una band emergente come i Vektor. Ti chiedi se potranno essere ancora in grado, a distanza di due anni, di riprodurre un disco come quello. E così, spinto da questo pensiero, lo compri. Inserisci il disco nel lettore e premi Play. Sei pronto?
Cosmic Cortex: “Ok, ora per favore, appoggia tutti i pensieri metallici nel cestino e passa attraverso il metal detector”. Stai per passare e il tuo cuore inizia a battere pensando che forse ti sei dimenticato di lasciar giù qualcosa e quindi che quel metal detector possa suonare e tu non riesci a partire e…..ok, sei passato e non è successo nulla. Sei pronto per cominciare.
Un bell’arpeggio iniziale giusto per darti il tempo di decollare, un buon riff tranquillo per allacciare la cintura e….via, non c’è più tempo. La tua mente deve correre, sei finito in un vortice che intrappola il tuo cervello e respiri quest’aria piena di odio, paura e dubbi….l’unico modo per uscirne è accettare l’incontro con la batteria frenetica di Anderson e la voce di Di Santo che sembra provenire da chissà quale abisso: taking control of all communications, watch the cortex grow, it’s a mental infestation. Riffs velocissimi e martellanti, diretti, non hai il tempo di renderti conto. Ma la canzone scorre bene, intervallata da alcuni rallentamenti messi nei punti giusti, in modo che la canzone non possa annoiarti (dieci minuti di puro thrash tutto tirato difficilmente risulterebbero digeribili). Sorprendente come tanti tecnicismi siano stati composti in modo tale che la canzone non stanchi nemmeno per un istante.
Ok, sei uscito, andata. Dove ti trovi? La batteria ha rallentato un momento e sembra concederti giusto pochi minuti per darti il tempo di renderti conto che ti trovi in una Echoless Chamber. Una prima parte ben cadenzata ti aiuta a prendere coscienza di quello che ti circonda, la voce è meno tagliente, come se qualcuno da una di quelle nebulose avesse intenzione di spiegarti cosa sta succedendo intorno a te e realizzi che sei entrato in questa camera e stai scendendo sempre di più nell’oscurità…ma ben presto scopriamo che la canzone si divide in due parti, e nella seconda riprende il ritmo frenetico, la voce più stridula, tu devi capire! Perché questa oscurità porta via i colori del mondo che ti circonda, tu devi provare ad uscirne, devi sbrigarti, e così grazie a quel connubio di batteria forsennata, note che si susseguono veloci e tecniche che creano quel bellissimo contrasto con le rullate di batteria, e poi questo assolo tirato, preciso, e studiato in modo da poter combaciare perfettamente con ogni triplettata di chitarra, ci aiutano a raggiungere l’uscita verso il Dying World. Pensi di essere arrivato, ma sei solo all’inizio. Ricominci a camminare, osservi questo mondo e vedi il disordine, un mondo abbandonato e destinato a decadere, perché l’umanità ha perso il controllo. Ci stiamo autodistruggendo. Tecnicismi non troppo spediti contornati da azzeccatissimi cambi di tempo che, insieme alla dissonanza dei fraseggi, ti tengono la mente incollata a questo collage di bravura. E poi, senza preavviso, il brano si divide esattamente in due. Ecco che torna il nostro thrash velocissimo che comprende un (altro) assolo magistralmente composto.
L’inizio di Tetrastructural Minds riassume perfettamente quello che c’è nella tua testa in questo momento. La consapevolezza che ormai non c’è più speranza per nessuno, per quanto puoi correre, non potrai mai scappare da questa realtà. L’inizio questa volta è più veloce rispetto alle altre canzoni, ma anche qui i cambi di tempo non mancano, tanto che si fa fatica a capire come sia strutturato questo brano, ma la voce di Di Santo e soprattutto i due splendidi assoli costruiti prima su una base più veloce e poi su una molto più lenta, ti danno conferma che ci troviamo tra le mani qualcosa di davvero strabiliante.
Le nuvole grigie che ti circondano…il Venus Project! Ecco a cosa è dovuto tutto questo disastro nucleare, la guerra avrebbe dovuto essere la priorità per il loro futuro, senti questi rumori di battaglia! Ma guarda cos’è rimasto, nient’altro che un disastro chimico. Canzone meno diretta rispetto alle altre (se di direzione si può parlare in un disco che gronda di tecnica, accordi dissonanti, e strutture vorticanti e complesse, che troviamo anche in questa canzone), ci sono più rallentamenti, o, per meglio dire, dei veri e propri break melodici, in particolar modo a circa metà brano, ma che anche qui non stancano. Emotivamente molto coinvolgente e sapientemente costruito per non essere skippato.
Accordi apparentemente discordanti che ti fanno capire quanto sia assurdo tutto questo, l’unica cosa viva qui è solo il passato.
Solo la verità sopravvive….but there’s no life in your false Creators and truth at all in Dark Creations.
Di nuovo un’introduzione lenta, ancora molta tecnica, accelerazione che introduce un altrettanto velocissimo assolo in tapping, ma forse tra tutti i brani che abbiamo sentito finora questo sembra quello meno complesso di tutti, o per lo meno riesci ad inquadrarlo meglio da punto di vista strutturale.
Bello il giro di batteria che introduce Fast Peaced Society e il basso che esalta degnamente questa sensazione di oppressione dal quale, come questa canzone ci insegna, non c’è fuga.
Ascoltando questo brano sembra di sentire dieci canzoni in una. Sembrano tanti tasselli di un difficile mosaico che, messe insieme, danno un risultato straordinario. In questa canzone ci possiamo rendere conto che la velocità non è tutto, ma un’esaltazione di qualcosa che è già di per sé grandioso. Ma…il sibilo di una porta sembra togliere i sigilli dalla mia mente. Faccio fatica ma forse riesco a vedere una luce in mezzo a tutto questo buio. Provo a correre verso questo barlume di speranza, dove andrò non lo so, ma l’importante è uscirne per trovare la fine e vedere l’inizio di una nuova vita….
Ora sei rimasto solo tu…fuori.
Outer Isolation. Anche nella titletrack troviamo un’introduzione emotiva, con altrettanti giri cadenzati e altri più lenti, come ad esempio il motivo su cui è composto l’assolo, ma mai ripetitivi, mai scontati, mai noiosi. Insomma, ci hanno dimostrato di essere geniali fino alla fine. Eject.
Se l’intenzione era quella di stupire, di sicuro ci sono riusciti alla grande, anche questa volta: è come essere spettatori di un film di fantascienza.
La copertina non avrebbe potuto essere più consona: dalla scelta dei colori al disegno vero e proprio (un uomo solo sospeso a mezz’aria, perché è così che ti senti), così come la decisione di utilizzare l’ultima canzone come titletrack. Puntando l’attenzione ai testi, è ovvio che una canzone di questo tipo non poteva essere messa all’inizio.
Ammirevole come l’uso di molti tecnicismi non abbia reso noioso o troppo complicato l’ascolto di questo disco. Voce molto particolare, come già abbiamo avuto modo di ascoltare con Black Future, forse meno stridente rispetto al primo album, magari può risultare un pochino stancante in alcuni punti, ma sicuramente più espressiva e a tema con l’argomento trattato.
Nulla di particolarmente stravolgente, in quanto alcuni passaggi ci richiamano alcune caratteristiche voivodiane, ma sbaglierei se dicessi che questo è un album copiato da loro. Copiare una ricetta, lo sanno fare tutti, crearne una nuova, no. Loro sono riusciti a scegliere con attenzione tutti gli ingredienti che i diversi generi metal ti mettono a disposizione e a dosarli con cura e passione facendo esaltare tutti i sapori.
Quello che sicuramente colpisce di più di questo disco è la maturità degli assoli, più ricercati rispetto al lavoro precedente e quindi qualitativamente più apprezzabili, aiutati sicuramente anche da una buona produzione.
Azzeccata è stata la scelta di accorciare la durata dei brani rispetto a Black Future. Dimentichiamoci il significato di prolissità: più velocità e meno lungaggini. Curioso è il fatto che in questo disco non ci sia un brano che spicca di più rispetto agli altri. Ognuno ha la sua storia da raccontare; alcuni hanno aneddoti più coloriti, altri un po’ meno, ma con pari diritto di ascolto. Preferibilmente nell’ordine proposto se vogliamo coglierne il senso.
C’è chi dice che è un capolavoro, c’è chi dice che non lo è, io dico che sicuramente è un disco di cui si parlerà per molto tempo e che lascerà un’impronta importante nella storia del thrash. Di gruppi che fanno thrash metal ce ne sono un’infinità, ma pochissimi riescono a fare quel salto di qualità che li distingue dagli altri, soprattutto al giorno d’oggi.
Finora i Vektor hanno dimostrato di essere dei buoni architetti, iniziando a costruire un progetto che ha saputo dare finalmente quella ventata di novità che tanto ci manca.
Vediamo se saranno in grado di affermarsi. Nel frattempo, godiamoci quest’ottima pietra miliare.
Silveria Pedrazzini (98/100)
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