Recensione: Outlaw
Al grido di “Scordate la spada e scordate il drago” (sic) tornano i finlandesi Astralion; premessa interessante, ma se il risultato è un artwork ridicolo e kitsch come quello che accompagna il disco in questione, allora ridateci i draghi. Scelte estetiche a parte, quello che interessa a noi è la proposta musicale, la quale non si discosta molto dall’album d’esordio: power metal melodico che si rifà ai Freedom Call per il mood generale che pervade il disco, ma soprattutto ai connazionali Stratovarius e Sonata Arctica per quanto riguarda lo stile. In particolare le doti tecniche dei musicisti vengono puntualmente messe in risalto durante gli assoli, quasi sempre ispirati e ben suonati e che spesso richiamano alla mente proprio gli Stratovarius dei tempi d’oro nei continui duelli di chitarra e tastiera. Difatti i componenti degli Astralion non sono certo di primo pelo, ma sono anzi musicisti navigati. In particolare Ian E. Highhill e Krister Lundell, rispettivamente cantante e bassista, provengono dagli ormai defunti Olympos Mons, gruppo che a metà dello scorso decennio aveva pubblicato due ottimi album di power metal melodico a tinte sinfoniche.
Il compito di aprire le danze spetta a “Deathphone (Final Destination)”. Invece della classica power speed song in doppia cassa, come era stato per il precedente lavoro, l’opener si rivela essere un brano quadrato e cadenzato nel suo incedere, che rimanda ad un certo metal teutonico. Un riffing roccioso e potente che poggia su un tappeto di tastiera accompagna tutta la strofa, per poi rallentare ulteriormente nel bridge, che prepara all’apertura melodica di un ritornello decisamente azzeccato. Con “Black Adder” si comincia a spingere il piede sull’acceleratore. Il brano, che sembra uscito direttamente (e spudoratamente) da un album degli Stratovarius, è un concentrato di potenza e melodia dove chitarra e tastiera si inseguono freneticamente senza un attimo di tregua. Thomas Henry è praticamente un emule di Jens Johansson, dallo stile alla scelta dei suoni (in questo caso il clavicembalo), ma non si può certo dire che gli machi la tecnica. Lo stesso vale per il lavoro chitarristico di Hank J. Newman, dal quale traspare tutto l’amore per il Tollki dei tempi d’oro.
Dopo l’ottima doppietta iniziale, purtroppo arriva qualche calo di tono. “Sacrificed & Immortalized” non convince a pieno. Il brano ha delle buone idee se prese singolarmente, ma che faticano ad amalgamarsi tra loro, a partire dalla ripetuta melodia di moog, che lascia trapelare velleità prog, ma che non c’entra nulla col resto del pezzo. “Be Careful What You Wish For” si apre con una melodia di piano attorno al quale ruota tutto il brano, che risulta uno dei più leggeri e diretti del platter. Caratterizzato da tempi medi e da un ritornello piacevole ma non memorabile, il riferimento più immediato è quello degli ultimi Sonata Arctica. “Nightmares Never Give Up” ha invece il compito di riportare il disco su binari tipicamente power, dimostrando che gli Astralion convincono maggiormente nei pezzi veloci. Riff impazziti, doppia cassa furiosa, tastiere festose e tanta melodia sono gli elementi peculiari di questo pezzo, ma anche cori trascinanti e, come sempre, ottimi assoli.
Sebbene non sia presente una ballad vera e propria, “Wastelands Of Ice” è il pezzo che ci si avvicina di più. Il brano inizia con dolci arpeggi di clean guitar e piano che fanno da tappeto alla voce di Ian E. Highhill, che gioca qui su registri più bassi. L’ingresso della chitarra distorta ha il compito di irrobustire il brano, che sfocia in un ritornello dal gusto malinconico ma tutto sommato abbastanza innocuo. Arriviamo così al pezzo che dà il titolo al disco, il quale risulta fortemente debitore al power supersonico dei Dragonforce tanto nei ritmi serrati della batteria quanto nello stile chitarristico, discostandosene solo nel break sinfonico che fa da preludio agli assoli. Interessante l’esperimento di “Ghosts of Sahara”, epica cavalcata heavy caratterizzata da melodie arabeggianti. Se escludiamo i pezzi speed, che abbiamo ormai capito essere nelle loro corde, è il brano che risulta il più interessante, assieme all’opener. Di “Heading West”, l’ultimo dei brani di power classico, spiccano gli ottimi assoli neoclassici e barocchi, che ancora una volta mettono in mostra le doti tecniche dei nostri.
Chiude il disco la suite “The Great Palace Of The Sea”, brano della durata di 10 minuti dalle marcate influenze irish folk che strizza l’occhio agli Alestorm. Un esperimento interessante, ma che mi ha lasciato un po’ perplesso per quanto riguarda il risultato finale. Ottima la partenza folk affidata al violino, che evolve in una cavalcata folk metal con l’ingresso degli altri strumenti e della voce. Nella seconda sezione i ritmi si rallentano a e il folk lascia il posto ad atmosfere più sinfoniche e solenni, che fanno da apripista al momento dei funambolici assoli. Improvvisamente (e inspiegabilmente), intorno al settimo minuto, in un momento di crescendo e di tensione il brano dissolve frettolosamente, lasciando il posto al rumore del mare e ad un momento acustico che riprende il tema iniziale, lasciando un po’ di amaro in bocca.
In sostanza questo secondo lavoro degli Astralion mi è sembrato un piccolo passo indietro rispetto al debutto, più fresco e ispirato, ma soprattutto più compatto e omogeneo. A differenza del precedente lavoro, che tutto sommato scorreva liscio dall’inizio alla fine, questa volta registriamo la presenza di qualche giro a vuoto nella parte centrale. La sufficienza abbondante è comunque garantita, perché dove non è arrivata l’ispirazione ci ha pensato l’esperienza a metterci una pezza e perché comunque di pezzi validi ce ne sono diversi. Questo disco di certo non farà la storia del power metal, ma se amate questo tipo di sonorità e siete stanchi dei soliti nomi concedetegli un ascolto, sicuramente qualcosa di buono lo troverete.