Recensione: Outlier
A distanza di due anni esatti dall’uscita di “Rendered Waters”, più una sorta di “best of” con solo tre canzoni nuove di zecca, e a distanza di ben quattro anni dal precedente “Magnified”, tornano finalmente in pista Lenny Wolf e i suoi Kingdom Come. Certo, molte cose sono cambiate dall’epoca del Led-cloning e indubbiamente l’hype attorno alle nuove uscite del gruppo tedesco non è più quella dei tempi d’oro, ciò nonostante, le grandi doti di compositore e cantante di Mr. Wolf hanno permesso la sopravvivenza della sua creatura nel corso degli anni e regalato, talvolta, anche notevoli colpi di coda.
Il nuovissimo “Outlier”, per coloro che ancora oggi identificano il sound dei KC con quello del favoloso trittico composto dall’album omonimo del 1988, dal successivo “In Your Face” e dal definitivo “Hands Of Time”, potrebbe non risultare del tutto soddisfacente, giacché il discorso di stile portato avanti dal testardo cantante di origini tedesche, più che rifarsi alle sonorità delle origini, continua lungo la strada intrapresa a partire dal controverso (ma tardivamente rivalutato) “Bad Image”. Brani, dunque, piuttosto “rarefatti” e per certi versi patinati, nei quali Lenny ha modo di dipingere melodie solenni e ancora oggi di una bellezza impareggiabile, adagiate su riff sinuosi e impreziosite da arrangiamenti che, pur non disdegnando qualche tratto più moderno, conservano la maestosa grazia di un quadro di Jacques-Louis David o del Caravaggio.
Fin dalle prime note dell’iniziale “Goes Does Not Sing Our Song” veniamo investiti dalla piena inesorabile di un fiume dall’incedere flemmatico quanto letale: le ritmiche sono rallentate, quasi marziali, e la superba voce di Lenny si fonde in un tutt’uno con il tessuto sonoro vellutato creato da chitarre, basso e batteria, mentre la nostra mente viene inghiottita da un oscuro vortice senza scampo. Pura magia del Rock. “Running High Distorsion” prosegue questo immaginifico cammino, trascinandosi fuori dalla palude e andando incontro alla tempesta in un finale “elettrico” a grande intensità e ad altissimo voltaggio, seguita da una “Rough Ride Rallye” che riporta la memoria a brani come “Passion Departed”, “Fake Believer” e “Mad Queen”, rievocandoli senza scimmiottarli e riproponendone alcuni dei tratti caratteristici con la stessa riverenza con cui si soffia via la polvere da un prezioso quadro antico rimasto per troppo tempo in soffitta.
L’Hard Rock (le maiuscole sono d’obbligo) torna alla ribalta grazie alle spettacolari “Let The Silence Talk” e “The Trap Is Alive”, due tracce scorrevoli e vigorose tra le quali si insinua la magnifica “Holy Curtain”, grigia, fredda e densa come la nebbia autunnale. La successiva “Skip The Cover And Feel” è di nuovo maestosa e inarrivabile, ancor più del già notevolissimo terzetto d’apertura, ma il vero capolavoro lo incrociamo con “Don’t Want You To Wait”, un hard ‘n’ heavy carico e metallico come non se ne sentiranno mai abbastanza.
Peccato per la poco riuscita “Such A Shame”, con la sua melodia un po’ faticosa e la resa complessivamente scarsa in rapporto al livello medio della tracklist, perché con la conclusiva “When The Colors Break The Grey” torniamo a livelli di poesia ed atmosfera assolutamente straordinari, cullati con grazia estrema dalla stellare voce di un Lenny Wolf al top delle sue (enormi) possibilità. Se da anni aspettavate un ritorno a grandissimi livelli da parte dei Kingdom Come, beh, ora quel momento è arrivato: “Outlier” non sarà un capolavoro in grado di sovvertire le sorti del mondo della musica, ma è certamente un grande album in grado di competere con i masterpiece del passato e di schiacciare senza pietà grande parte dell’attuale concorrenza. Lunga vita a Lenny e ai suoi Kingdom Come!
Stefano Burini
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